Per un partito che non rinunci a pensare:
la posizione althusseriana al XXII Congresso del Partito comunista francese

di Andrea Girometti*

 

Continua la traduzione in italiano dei maggiori testi inediti althusseriani di cui l’”Associazione Culturale Louis Althusser” è in gran parte artefice da oltre vent’anni, e a cui si deve l’attenta cura editoriale e scientifica di due importanti collane – “Althusseriana” e “Epistemologia” – presso le edizioni Mimesis. In particolare, con Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso) si torna a focalizzare l’attenzione sulla produzione teorica del filosofo marxista in una congiuntura densa di aperture e incertezze come gli anni Settanta, in cui si manifestava l’ultima possibilità, come si sarebbe visto ex post, per il movimento comunista e più genericamente progressista (come si sarebbe detto allora) di rilanciare una battaglia di emancipazione a tutto campo su un fronte mondiale, prima che la rivoluzione conservatrice, sotto molteplici forme, si affermasse e tentasse di riempire ogni vuoto come oggi tristemente possiamo ancora constatare. Il testo, articolato sotto forma di autointervista e ben tradotto da Fabio Bruschi, Andrea Cavazzini e Maria Turchetto, ha subìto diversi rimaneggiamenti ma i temi essenziali che lo connotano erano evidentemente in gestazione da anni. Esso incarna il disagio e la sfida althusseriana, ad un tempo teorica e politica, nei confronti della scelta effettuata nel 1976 dal Partito comunista francese, in occasione del XXII congresso, di rinunciare alla dittatura del proletariato, un concetto chiave – secondo Althusser – e nondimeno sottoposto a deviazioni e fraintendimenti, della teoria marxista. Un tema su cui, peraltro, era già intervenuto con « un colpo d’artiglieria » uno dei principali allievi e collaboratori di Althusser, Étienne Balibar[1]. Sotto un aspetto più strettamente teoretico, Les vaches noires rappresenta, come ha sottolineato opportunamente il curatore G. M. Goshgarian, « il principale anello mancante » nella produzione teorica althusseriana relativamente al periodo che va dalla redazione de La riproduzione dei rapporti di produzione ai testi «sui limiti (…) e la grandezza di Marx »[2]. Pertanto, la sua lettura è ancora più utile per testare le linee di continuità, più che le rotture, nel pensiero althusseriano, fino a mostrare quanto il tema dello Stato e del dominio di classe siano stati una costante della sua riflessione. Il testo, come altri corposi scritti dell’epoca, dopo essere stato sottoposto all’esame critico di alcuni allievi e amici di Althusser (tra quelli accertati Étienne Balibar, Domenique Lecourt, Pierre Macherey, Fernando Claudin, Michel Verret oltre alla moglie Hélène Rytmann) non sarà pubblicato dall’autore per « inadeguatezza politica »[3]. Nondimeno, ne troviamo tracce significative in interventi successivi, come il noto 22e Congrès, pubblicato prima in inglese insieme al testo di Balibar[4], poi dall’editore Maspero[5], che è sicuramente una versione « più ovattata » di una parte de Les vaches noires[6], così come un’eco dei temi trattati (teoria della dittatura del proletariato, critica della pratica politica staliniana, ecc.) la si può riscontrare in testi coevi, editi e inediti. Soprattutto, il V e il VI capitolo (Sulla dittatura del proletariato e Le forme politiche della dittatura del proletariato) rappresentano una versione dell’intervento sulla dittatura del proletariato che Althusser espose in francese all’Università di Barcellona il 7 luglio 1976, di cui uscì una traduzione in spagnolo nel 1978[7], mentre la versione originale, simile a quella riportata nel testo, è stata pubblicata in francese solo nel 2014[8]. In altri, era già disponibile un’importante anticipazione delle posizioni althusseriane, seppure scarsamente conosciuta e diffusa.       
Fin dalla presentazione dell’autore[9], un denso excursus sulla sua vita e sul suo impegno di militante comunista nelle file del Pcf (che non lo vedrà mai salire nell’organigramma partitico oltre l’incarico di segretario di cellula), l’intento di Althusser è di chiarire la sua posizione scomoda, marginalizzata e bersagliata da più parti all’interno (e all’esterno) del partito; di denunciare lealmente i limiti del Pcf – probabilmente già irriformabile, come affermano i curatori dell’edizione italiana[10] – nella speranza di poter ancora contribuire ad un mutamento, sia sotto il profilo teorico – ridando vigore alla teoria scientifica marxista, perlopiù negletta e caricaturizzata da gran parte dei dirigenti –, sia politico e organizzativo, invitando ad un’apertura e a una reale democratizzazione del partito, che per Althusser corrispondeva a restaurare, con chiari riferimenti leniniani, un autentico centralismo democratico, che avrebbe dovuto tradursi nel dare un’effettiva, e dunque proporzionale, rappresentanza ai militanti e riconoscere giuridicamente le diverse tendenze (senza per questo cadere nel frazionismo) che lo abitano, come sottolineerà più ampiamente nell’XI capitolo[11]. Ad ogni modo, il tema della scarsa democrazia interna al partito – il cui procedimento elettivo risultava « meno democratico dello scrutinio elettorale borghese attuale »[12] – rappresenta già l’incipit del secondo capitolo dedicato alla contraddizione del XXII Congresso e la premessa per cui anche mutamenti radicali di linea possono passare attraverso « solo una seduta di registrazione che si chiude con un voto unanime »[13].  
Nella ricostruzione della discussione congressuale e dei documenti votati, Althusser evidenzia la dirimente assenza di una analisi concreta della situazione concreta – aspetto che alcuni lettori critici del testo althusseriano come Balibar attribuiranno allo stesso Althusser nei termini d’incapacità di andare oltre ad una tale constatazione – senza della quale la legittimazione di nuovi orientamenti sarebbe risultata quantomeno zoppicante. Allo stesso tempo, la decisione più eclatante – l’abbandono della dittatura del proletariato – risultava scarsamente concettualizzata e perfino contraddittoria con altri passaggi dei documenti approvati, tanto che Althusser farà notare come in realtà non si abbandonasse il concetto di dittatura del proletariato, quanto, in forme mal poste e malpensate, una sua denominazione riconducibile alle pratiche staliniane con cui – giustamente – si voleva rompere, ma rimanendo al di qua di un’adeguata riflessione e all’interno di una pratica burocratico-liquidazionista non meno staliniana e nel contempo ispirata da un ripiegamento politico-strategico “di destra” che vedeva nell’orizzonte di governo delle sinistre e in un fragile e improbabile eurocomunismo i suoi, come si vedrà ex post, esclusivi quanto effimeri approdi.                      
Rigettare il sintagma dittatura del proletariato, significava dimenticare che « le parole sono diventate cose, forze, realtà oggettive, che non è più possibile ridurre alla semplice forma verbale »[14], con conseguenze rilevanti, ad esempio, sulla concezione dello Stato, che da « macchina oppressiva [diventava] in qualche modo un servizio pubblico [da porre] al servizio di tutti i francesi »[15], o sul significato dell’internazionalismo proletario in tempi di coesistenza pacifica (e divisione del movimento comunista), che in realtà « era tutt’uno con la questione della dittatura del proletariato, poiché la ragion d’essere dell’internazionalismo proletario è l’unità di tutti i proletari contro l’imperialismo mondiale »[16] e, in definitiva, « la dittatura del proletariato non è altro che la risposta [corsivo mio] alla dittatura della borghesia »[17] a livello mondiale. Nella posizione althusseriana, pertanto, diventava dirimente ricostruire il concetto di dittatura del proletariato difendendone il suo carattere scientifico, su cui, come tale, nessun Congresso di partito aveva l’autorità di proclamarne l’abbandono (salvo mutare radicalmente la sua natura di partito comunista), nonché – ma per Althusser ne rappresentava la logica conseguenza epistemologica oltre che politica – liberarlo « dalla pesantissima ipoteca storica e politica [staliniana] che pesa su di lui da quarant’anni »[18]. Le tesi di Althusser risulterebbero difficilmente comprensibili, peraltro, se non si facesse astrazione dalla natura del Pcf o meglio da ciò che avrebbe dovuto caratterizzarlo in quanto partito comunista: il carattere scientifico della dottrina che possedeva. Infatti, affermava Althusser, « per la prima volta nella storia, questa dottrina dà alla sua organizzazione una presa reale sulla lotta di classe, e la prospettiva di un’azione oggettivamente rivoluzionaria »[19]. In effetti, se secondo Althusser i partiti borghesi non hanno bisogno di una teoria scientifica, essendo installati nei luoghi di potere, le socialdemocrazie, o forze come il Partito socialista francese, a loro volta, hanno solo « vaghe idee generali in cui si parla di aspirazioni popolari, di democrazia, di libertà »[20]. Ciò fa in modo che possano cambiare costantemente parole quando lo desiderano, senza che con questo muti radicalmente l’analisi della realtà, la presa sulla medesima e dunque la capacità di trasformarla. Nel migliore dei casi ci si adatterà per gestirla meglio (ciò che oggi chiameremmo, eufemisticamente, un buon governo), nel peggiore per radicalizzare i processi di restaurazione e conservazione dei fondamenti della formazione sociale capitalistica. Quindi, nei partiti senza una dottrina, si può – dice Althusser – « ”pensare” pressoché tutto ciò che [si] vuole, perché, nel senso forte della parola “pensare”, non [si] ha un pensiero »[21] (l’equivalente dell’hegeliana notte in cui le vacche sono tutte nere), dato che avere una teoria significherebbe, invece, disporre di « un corpo sistematico di concetti che non solo permette d’interpretare i fatti, ma implica dei vincoli nell’azione politica »[22]. E se i concetti scientifici che animano una dottrina sono l’opposto dei dogmi di fede, essi non possono diventare “antiquati” o essere “superati dalla vita”[23], come approssimativamente, su basi storicistico-empiristiche, si tentava di accreditare in strappi come quelli consumati dal XXII Congresso. Althusser, tuttavia, sapeva bene che è sempre possibile uno scarto tra un concetto teorico e le parole utilizzate per formularlo e soprattutto descriverlo, così come « dipende dalla congiuntura [corsivo mio] »[24] la presa concreta sulle masse che ha un concetto, al di là della terminologia utilizzata. Qui sta, secondo il filosofo francese, il cuore della crisi della teoria marxista come teoria scientifica, se la si vuol privare di un concetto chiave come quello di dittatura del proletariato, senza peraltro sapere davvero di cosa ci si priva e se davvero lo si sta abbandonando… Allo stesso tempo, una scienza diventa « una semplice appendice dell’ideologia dominante », quindi dell’ideologia borghese, « se non lavora sui propri concetti per conoscere nuovi oggetti »[25]. Ed era proprio ciò che stava succedendo al marxismo (e che ne avrebbe decretato l’arresto teorico e politico, come sarebbe stato più chiaro nei decenni successivi), considerando che lo stesso Marx non era riuscito a rompere definitivamente con l’ideologia borghese…ammesso che sia davvero possibile una tale rottura. E se è vero che «non esiste alcuna scienza al mondo i cui praticanti siano esenti dal proferire errori» e se il dirigente comunista, secondo Althusser, « è un teorico di massa, che accetta di dire delle cose vere in un linguaggio semplice, e cerca di dire delle cose vere, perché ciò che dice passa direttamente nella pratica »[26], nondimeno si assisteva a un blocco della teoria marxista (così come della sua efficacia pratico-politica) a cui non si poteva rispondere con il semplice innesto, più o meno consapevole, di altre discipline come l’economia politica, la psicologia o la sociologia (rispetto a quest’ultima nel testo c’è una risposta sintetica quanto sferzante ad un precedente attacco bourdieusiano[27] che testimonia, a parere di chi scrive, qualcosa di più profondo di una mera contrapposizione teorico-politica), tutte interne, secondo Althusser, all’ideologia dominante, anche se non prive di utilità. Si trattava, pertanto, di sbloccare la teoria marxista senza rimuoverne i fondamenti e, nondimeno, di tenere conto del carattere limitato e dell’oggetto circoscritto a cui si riferisce. Essa, infatti, dice Althusser, « è la scienza del modo di produzione capitalistico e delle sue tendenze contraddittorie, che sboccano necessariamente [corsivo mio] nella rivoluzione e nella sostituzione della dittatura della borghesia con la dittatura del proletariato »[28]. Più sinteticamente, l’oggetto della scienza marxista sono « le leggi della lotta di classe nelle società di classe »[29]. Il marxismo, dunque, non è una filosofia della storia. Lo sbocco necessario nella rivoluzione sta a indicare l’imprescindibilità di una rottura, nel passaggio dal dominio di una classe all’altra, in un processo di trasformazione, che non avverrà certo da sé come Althusser dirà in altri punti del testo e che, pertanto, non è affatto scontato né esiste in anticipo, tanto meno in forme (pre)determinate.
Diventava dunque dirimente capire cosa intendere con dittatura del proletariato e quali sono le sue forme politiche. A questi temi centrali sono dedicati il quinto e il sesto capitolo che, come abbiamo già accennato, costituiscono l’ossatura della conferenza di Barcellona. Innanzitutto, per Althusser, la dittatura del proletariato era « all’ordine del giorno di tutti i partiti comunisti del mondo intero »[30] ed era – prima della sua valenza politica, passibile anche di radicali fraintendimenti (come quelli staliniani) – un concetto scientifico, capace cioè di designare la realtà che designa perché capace di fornirne la conoscenza[31]. Nel ricostruirne la genealogia, Althusser poneva in risalto il carattere esplosivo del nuovo sintagma marxiano. In effetti, fino ad allora dittatura designava un potere assoluto al di sopra della legge esercitato da un singolo o da un’assemblea e in quanto tale era eminentemente politico. Mai era stato concepito come potere di una classe che sovrastava la politica in quanto preso nella lotta di classe e, al contempo, restava incomprensibile da solo, richiamando necessariamente il concetto di dittatura della borghesia, tanto che « è il concetto di dittatura della borghesia che detiene il “segreto” del concetto di dittatura del proletariato »[32]. Dunque, la dittatura di una classe non si esercita solo nella dimensione politica, né corrisponde alla sua formulazione tradizionale. Soprattutto, da una prospettiva marxiana, ciò che muta è l’idea e il legame tra le classi (l’esistenza delle quali non è stata certo scoperta da Marx). La novità inudibile introdotta da Marx consiste – afferma Althusser – nell’aver posto l’identità tra le classi e la lotta di classe, dove quest’ultima non è derivata dall’esistenza delle classi ma « fa tutt’uno con ciò che divide le classi in classi »[33]. Ciò diventa visibile nella sfera economica, dove il rapporto di produzione capitalistico, apparentemente riconducibile ad un rapporto giuridico di acquisto e vendita della forza lavoro, in realtà rinvia, non tanto a un rapporto politico o ideologico, quanto ad un «rapporto di forza ininterrotto, dalla violenza esplicita dell’accumulazione primitiva fino all’estorsione contemporanea del plusvalore»[34]. Su di esso, sulla sua violenza originaria, s’installa « la politica come guerra (di classe) continuata con altri mezzi »[35], affermerà Althusser. Un rapporto di forza, in quanto tale, non può che precedere il diritto e stabilisce rapporti necessariamente antagonistici in cui lo Stato svolge un ruolo di riproduzione delle condizioni generali del rapporto di produzione medesimo.
Lo Stato è dunque interpretato come « una macchina di potere »[36] che trasforma la forza in leggi e queste ultime non sono altro che condensazioni di rapporti di forza. Il potere dello Stato, pertanto, dipende dalla lotta di classe e per questo, secondo Althusser, solo una classe (borghesia o proletariato) può detenerlo o, meglio, il potere penderà sempre « dal lato di una sola e unica classe »[37]. Allo stesso tempo, lo Stato come apparato è soggetto a molteplici configurazioni che non ne ledono la verità di fondo, cioè l’essere dipendente dal e funzionale al dominio di una classe. Per questo motivo, il proletariato, in quanto « classe sfruttata che non sfrutta nessuna classe »[38], proiettato consapevolmente verso una prospettiva comunista di società senza classi, non può, secondo una tesi riformista, accontentarsi di un presunto graduale indebolimento della repressione statale e di una sua costante mutazione in “servizio pubblico” (Althusser qui interloquisce con le tesi dello storico comunista Jean Elleinstein[39]), ma deve spezzare l’apparato di stato borghese, costituendo uno “Stato-non-Stato”, e dunque mirare al deperimento dello Stato se non vorrà adattarsi, come tutte le altre classi nella storia, a riprodurre forme di sfruttamento. Ad ogni modo, per Althusser – e qui sta la cifra della sua originale critica antistalinista –, è impossibile dedurre dal dominio di classe le forme politiche che esso assumerà. È dunque del tutto priva di fondamento l’ipotesi che la forma di realizzazione sia una « dittatura definita come potere tirannico, sia esso di un uomo o di un partito »[40]. Tra dittatura di classe e forma politica della dittatura vi è incompatibilità ed eterogeneità, tanto più se la dittatura del proletariato è concepita leninianamente come « la democrazia delle più larghe masse, corrispondente a una libertà che gli uomini non hanno mai conosciuto »[41]. Libertà che a sua volta non potrà arrestarsi alle cosiddette “libertà formali”, alla loro geometria variabile e contraddittoria nella dialettica tra i principi che innervano i diritti dell’uomo e del cittadino e il diritto effettivamente codificato, che in realtà, procedendo oltre la feuerbachiana critica del giovane Marx condensata nella Questione ebraica, delineano rapporti « terribilmente reali »[42] nel designare « lavoratori liberi e uguali » nel loro essere « spossessati dei mezzi di produzione »[43].           
In tal senso, dirà Althusser, «la strategia del comunismo» si trova di fronte ad un bivio: se non vuol cadere in una forma di opportunismo, deve riconoscere quanto il socialismo – prima fase del comunismo – non è un modo di produzione autonomo. Ciò significa che « non esiste un modo di produzione socialist a», né un corrispettivo rapporto di produzione socialista[44]. Esso rappresenta un momento di transizione tra un modo di produzione capitalista ed uno comunista. È dunque un ibrido, in cui può verificarsi perfino una regressione, in cui « la nazionalizzazione dei mezzi di produzione anticipa formalmente l’abolizione della separazione tra produttori e mezzi di produzione », ma in cui « nazionalizzare significa semplicemente dare una nuova forma al capitalismo, la forma del capitalismo di Stato (…) che è la realizzazione della tendenza più profonda del capitalismo »[45]. Ne deriva che il salariato continua ad esistere, così come lo sfruttamento, il mercato e il potere del denaro. In questa fase, si è nondimeno avviata una forma comunista nella trasformazione delle condizioni della produzione (pianificazione, proprietà collettiva) che tuttavia non scalfisce il contenuto del rapporto di produzione (salariato), per cui, dice Althusser, o la nuova forma diventa reale o vincerà il vecchio rapporto di produzione capitalista. S’impone dunque una lotta di classe sotto la dittatura del proletariato che avvenga al contempo nelle sfere della produzione, della politica e dell’ideologia[46]. Essa non potrà che corrispondere ad una “democrazia portata fino in fondo”, che rompe con le forme borghesi per superarle, richiedendo la partecipazione attiva di chi se ne fa portatore; ed essa sarà possibile solo se il partito comunista e le altre organizzazioni di massa non si confonderanno con lo Stato, dato che quest’ultimo, indicatore della persistenza della divisione in classi, dovrebbe deperire e non riprodursi. Infatti, dalle forme assunte dalla dittatura del proletariato si può capire se esso deperisce e si riproduce ed è evidente che il modello sovietico, in cui era stata sancita la fine della lotta di classe e dunque della dittatura del proletariato, le forme comuniste legittimassero un nuovo ordine di classe più che anticipare il suo oltre-passamento. Quanto questa strategia del comunismo[47] – che secondo Althusser per essere tale e realizzarsi dovrà essere mondiale, non più segnata da rapporti di mercato e orientata allo sviluppo onnilaterale degli individui con le loro disuguaglianze (non delle persone, categorizzazione borghese) in un contesto che avrà abolito lo sfruttamento di classe e le classi – sia realisticamente possibile, rimane un dilemma che rischia di rimanere nel cielo della teoria, soprattutto dopo i fallimenti dei cosiddetti “socialismi reali” (Althusser dedica alcune pagine significative all’Urss, mostrandone aspetti a dir poco ambivalenti[48]) e le rimozioni teoriche e politiche che ne sono seguite. Forse si tratta di un’impresa che appare sovraumana, tanto più oggi di fronte a forme di regressione fascistizzanti delle democrazie liberali che colpiscono in prima istanza la figura paradigmatica del nuovo proletariato: i corpi estranei del lavoro migrante. Eppure, interrogarsi sull’ipotesi comunista[49] e i vicoli ciechi che ha incontrato e tornare, dunque, a pensare a una grande trasformazione, forse è il modo più adeguato per non arrendersi e non subire le derive del presente.  


 

* Recensione in corso di pubblicazione in Chaiers du GRM https://journals.openedition.org/grm/

[1] Étienne Balibar, Sur la dictature du prolétariat, Paris, Maspero, 1976

[2] G. M. Goshgarian, « Nota editoriale », in Louis Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), Edizione e annotazioni di G. M. Goshgarian, Milano-Udine, Mimesis, 2018, p. 22

[3] Ibid, p. 21

[4] Louis Althusser, « The Historic Significance of the 22nd Congress », in Étienne Balibar, On the Dictatorship of the Proletariat, London, New Left Books, 1977, pp. 193-211

[5] Louis Althusser, 22ème Congrès, Paris, Maspero, 1977

[6] G. M. Goshgarian, « Nota editoriale », op. cit., p. 21

[7] Louis Althusser, « Algunas cuestiones de la crisis de la teoria marxista », in Louis Althusser, Nuevos escritos (La crisis del movimiento communista internacional frente a la teoria marxista), Barcellona, Laia Editorial, 1978, pp. 9-54

[8] Louis Althusser, « Conférence sur la dictature du prolétariat à Barcelone », 6 luglio 1976, in Pèriode, http://revueperiode.net/un-texte-inedit-de-louis-althusser-conference-sur-la-dictature-du-proletariat-a-barcelone/

[9] L. Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), op. cit., pp. 31-51

[10] Fabio Bruschi, Andrea Cavazzini, Maria Turchetto, « Nota all’edizione italiana », in L, Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), op. cit., p. 8

[11] L. Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), op. cit., pp. 189-198

[12] Ibid., p. 53

[13] Ibid., p. 54

[14] Ibid., pp. 67-68

[15] Ibid., p. 69

[16] Ibid, p. 74

[17] Ibid., p. 77

[18] Ibid., p. 90

[19] Ibid., p. 93

[20] Ibid., p. 94

[21] Ibid., p. 95

[22] Ibid., p. 94

[23] Ibid., p. 98

[24] Ibid., p. 99

[25] Ibid., p. 102

[26] Ibid., p. 105

[27] Pierre Bourdieu, « La lecture de Marx. Quelques remarques critiques à propos de “Quelques remarques critiques à propos de Lire Le Capital” », Actes de la recherche en sciences sociales, n° 5-6, novembre 1975, pp. 65-79

[28] L. Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), op. cit., p. 106

[29] Ibid., p. 118

[30] Ibid., p. 115

[31] Ibid., p. 117

[32] Ibid., p. 122

[33] Ibid., p. 124

[34] Ibid., p. 124

[35] Ibid., p. 125

[36] Ibid., p. 127

[37] Ibid., p. 128

[38] Ibid., p. 132

[39] Jean Elleinstein, Le PC, Paris, Grasset, 1976

[40] L. Althusser, Le vacche nere. Intervista immaginaria (il disagio del XXII Congresso), op. cit., p. 135

[41] Ibid., p. 141

[42] Ibid., p. 157

[43] Ibid., p. 164

[44] Ibid., p. 136

[45] Ibid., pp. 136-137

[46] Ibid., p. 138

[47] Ibid., pp. 143-151

[48] Il filosofo francese, premettendo che le sue sono osservazioni che necessitano di ulteriori riscontri, evidenzia le conquiste dei lavoratori sovietici, la loro autonomia sul lato produttivo (con conseguenza negative sul lato della produttività complessiva) e anche del sostentamento, che sfociano nell’istituzione di un mercato secondario, in forme creative di riappropriazione dei mezzi di produzione (simili al lavoro nero) e nella ferma difesa (quasi corporativa) delle posizioni acquisite, ma al contempo non tace sull’antisemitismo che sembra pervadere la classe operaia. Quest’ultimo, tuttavia, gli appare come una forma mascherata di contrapposizione alla classe egemone degli intellettuali (i cui quadri medio-bassi, come insegnanti, medici e ingegneri, tuttavia, non erano adeguatamente considerati sotto il profilo socio-economico, e pertanto risultavano meno retribuiti rispetto a larghi settori della classe operaia più qualificata, come ammette lo stesso Althusser). È una lettura per lo meno parziale, che se posta in relazione con altri elementi evocati dal filosofo francese come il ritorno dell’irrazionalismo, la sostanziale svalutazione della teoria marxista nei luoghi formativi, il conformismo (morale e ideologico) e le rivendicazioni nazionalistiche delle varie repubbliche sovietiche deponevano, a veder bene, più per una potenziale regressione di larghi strati sociali e un processo di adattamento al sistema (e alle sue successive involuzioni) di coloro che avrebbero dovuto approfondire il processo di trasformazione. Ibid., pp. 199-210.    

[49] Alain Badiou, L’ipotesi comunista, Napoli, Cronopio, 2011