Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

Il ruolo degli organismi internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) nell’economia globalizzata

Maria Turchetto

Lezione del 1/4/2011

 

Le istituzioni di Bretton Woods

La globalizzazione dell’economia, sostenuta e propagandata da un’ideologia neoliberista, non è un sistema di “libero mercato”: una potente burocrazia internazionale – le “istituzioni di Bretton Woods” – esercita infatti sull’economia mondiale un pesante interventismo.

Le istituzioni di Bretton Woods sono la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Sono nate nell’ambito della conferenza di Bretton Woods che riunì gli alleati vincitori della seconda guerra mondiale ancor prima che la guerra finisse, nell’aprile del 1944, con l’intento di evitare le catastrofi economiche, finanziarie e monetarie che si erano verificate nel primo dopoguerra con la crisi del 1929 e il collasso del sistema monetario.

Gli accordi sancirono la nascita di un nuovo sistema monetario internazionale, il gold exchange standard ossia un sistema ancorato non più solo all’oro (come il vecchio gold standard) ma all’oro e alle valute convertibili in oro. Dal momento che l’unica divisa convertibile in oro a quell’epoca era il dollaro (come sempre, finite le guerre mondiali quasi tutto l’oro si trova nelle casse degli Stati Uniti), il sistema divenne in realtà progressivamente – com’è stato detto – un dollar standard, con un innegabile vantaggio per gli USA che dura tutt’ora, nonostante il sistema sia di fatto saltato nel 1971 quando Nixon dichiarò la non convertibilità in oro del dollaro. Negli accordi di Bretton Woods gli USA avevano in effetti un potere contrattuale preponderante – l’URSS partecipò alla conferenza ma non sottoscrisse poi gli accordi.

Gli accordi di Bretton Woods prevedevano inoltre l’istituzione della BM e del FMI, il cui ruolo economico è oggi importantissimo. Diciamo subito che non si tratta di istituzioni democratiche: i membri non sono eletti ma nominati, in genere dai ministri finanziari o dalle banche centrali dei paesi membri. Non sono nemmeno equamente rappresentative dei governi dei paesi membri, poiché vige la regola “un dollaro, un voto”: il voto è commisurato al versamento effettuato nel fondo da ciascun paese. Dunque contano i “maggiori azionisti”, cioè i governi delle nazioni ricche – con una gerarchia di posizioni che riflette ancora (salvo qualche aggiustamento successivo) i rapporti di forza e di ricchezza del secondo dopoguerra. Solo gli USA hanno diritto di veto.

Lo scopo istituzionale della BM e del FMI sono i seguenti:

-         facilitare l’espansione del commercio internazionale (ricordiamo che tra le due guerre, dopo la crisi del 1929 e le successive tempeste monetarie, il commercio internazionale si era drasticamente ridotto);

-         promuovere la stabilità dei rapporti di cambio, evitando svalutazioni competitive;

-         aiutare, mediante prestiti, gli stati membri in difficoltà con la bilancia dei pagamenti.

Nobili intenti, ispirati a una politica economica espansiva, una politica cioè che persegue la piena occupazione attraverso il sostegno della domanda aggregata con la spesa pubblica finanziata col debito pubblico, la riduzione delle imposte, l’abbassamento dei tassi di interesse.

Il problema è che, a partire dagli anni settanta, FMI e BM cambiano politica invertendo completamente la rotta e impongono ai paesi membri politiche economiche fortemente restrittive – tagli alla spesa pubblica, aumento delle imposte –  e dedicandosi, a partire dagli anni novanta, a un’attività di recupero crediti su scala mondiale.

 

Le crisi degli anni settanta

A cosa si deve questa inversione delle politiche suggerite – di fatto imposte, come vedremo – da FMI e BM? Io credo che la vicenda si debba ricostruire a partire dalla crisi del dollaro del 1971, anno in cui l’allora presidente USA Nixon dichiarò la non convertibilità in oro del dollaro, mandando a catafascio il sistema monetario di Bretton Woods – ma non le istituzioni di Bretton Woods, che cominciarono ad essere utilizzate in funzione dell’economia americana anziché per scopi comuni ai paesi membri. Oggi si parla comunemente di “Washington consensus” per indicare il fatto che c’è identità di vedute tra FMI, BM e Tesoro degli Stati Uniti.

La crisi del dollaro è dovuta in larga misura alla guerra del Vietnam, che gli USA finanziano stampando dollari indipendentemente dalle riserve auree. Ma ci sono anche altri elementi di crisi dell’economia americana: i mercati dei settori trainanti degli anni del boom economico (automobile e meccanica leggera) sono ormai saturi, mentre in questi stessi settori si sono ormai affermati concorrenti internazionali molto forti, come la Germania e il Giappone. Inoltre nel 1960 si è formato l’OPEC (Organisation of the Petroleum Exporting Countries) come risposta dei produttori di greggio alle compagnie petrolifere angloamericane (le famose “sette sorelle”, come le definì Enrico Mattei) che facevano il bello e il cattivo tempo sul prezzo del petrolio, con conseguente aumento dei costi di approvvigionamento. La pressione dell’OPEC scatenò una vera e propria crisi  petrolifera nel 1973, quando i paesi arabi bloccarono le esportazioni di greggio verso gli USA e verso i paesi europei che appoggiavano Israele nella guerra con l’Egitto.

La dichiarazione della non convertibilità del dollaro in oro ebbe solo in parte l’effetto di una svalutazione competitiva: marco e yen si rivalutarono, penalizzando le esportazioni di Germania e Giappone; il dollaro tuttavia non si svalutò in modo conseguente, grazie al ruolo di moneta leader svolto fino ad allora e soprattutto grazie ai petrodollari. Il pagamento del petrolio si effettua obbligatoriamente in dollari, con la conseguenza che tutti gli operatori e gli importatori di petrolio hanno bisogno di dollari e ne tengono alta la domanda: il dollaro continua così a rimanere una moneta forte anche se la bilancia commerciale degli Stati Uniti è in forte deficit.

 

Finanziarizzazione dell’economia e indebitamento dei paesi in via di sviluppo

Una conseguenza della crisi del dollaro e dell’aumento del prezzo del petrolio è, innanzitutto, che i produttori dell’OPEC incassano una marea di dollari non convertibili. Li affidano allora alle grandi banche commerciali – inizia probabilmente da qui il grande potere che le banche vanno acquistando rispetto ai settori produttivi dell’economia.

Le banche collocano i petrodollari sul mercato internazionale acquistando titoli ed erogando prestiti, soprattutto ai paesi in via di sviluppo bisognosi di infrastrutture e investimenti. Inizia così il processo di finanziarizzazione dell’economia, di cui vediamo oggi i frutti avvelenati, e il processo di indebitamento dei paesi del sud del mondo, destinato a esplodere nei decenni successivi.

La grande offerta di denaro successiva alla crisi del dollaro ha due conseguenze: si abbassano i tassi di interesse e aumenta l’inflazione. L’abbassamento dei tassi di interesse spinge ulteriormente i paesi in via di sviluppo a contrarre prestiti a tasso variabile. L’inflazione, problema principale dei paesi ricchi, promuove in questi nuove politiche economiche, non più espansive ma restrittive: si fanno strada le ricette dei “monetaristi”, i quali ritengono che una riduzione dei prezzi – e dunque dell’inflazione – si possa ottenere mediante una riduzione della domanda. Di fronte a una domanda ridotta (tagliando la spesa pubblica che ne è una componente e rendendo difficile l’accesso al credito mediante il rialzo dei tassi di interesse) i produttori dovranno abbassare i prezzi: in realtà l’effetto a medio termine è soprattutto quello di diminuire la produzione, creando disoccupazione; i produttori, inoltre, cercheranno di contenere i costi, in primo luogo i salari. In pratica, la ricetta dei monetaristi si può tradurre come segue: per “raffreddare” l’inflazione, creiamo un po’ di miseria.

Le conseguenze sono poco piacevoli per i lavoratori dei paesi sviluppati, drammatiche per i paesi in via di sviluppo: essi si trovano infatti a dover pagare interessi sui debiti molto più alti a causa dell’aumento dei tassi praticato con le politiche monetariste; poiché nel frattempo c’è stato anche un aumento del dollaro, si trovano anche il valore del debito contratto aumentato.

Nel 1982 il Messico dichiara insolvenza – ed è chiaro che molti paesi si trovano in condizioni del tutto analoghe. Le banche che avevano concesso i prestiti rischiano di non essere pagate: ma a loro soccorso entrano in campo FMI e BM, assumendo un compito di recupero crediti su scala mondiale…

 

I Piani di Aggiustamento Strutturale e i loro effetti

FMI e BM concedono ai paesi in difficoltà per l’indebitamento la rinegoziazione del debito (sostituendosi come creditori alle banche private o facendo da garanti) e concedono ulteriori prestiti per pagare gli interessi accumulati. Tutto ciò è condizionato all’adozione, da parte dei paesi “aiutati”, di Piani di Aggiustamento Strutturale (ASP). Questi prevedono:

-         pesanti tagli alla spesa pubblica (che sono duri per tutti, come sappiamo sulla nostra pelle, ma nei paesi più poveri sono a volte drammatici perché comportano l’interruzione di programmi di alfabetizzazione, di importanti campagne sanitarie, ecc.);

-         liberismo, cioè divieto di barriere doganali e di ogni pratica protezionista (questo significa in molti casi – per esempio nel caso dell’argentina, ma anche in quello della Russia – bloccare lo sviluppo industriale, dal momento che i prodotti industriali di quei paesi non possono competere con quelli dei paesi più avanzati, e inchiodare i paesi in via di sviluppo al destino di esportatori di materie prime);

-         privatizzazioni di proprietà, banche, imprese statali (occasioni d’oro per i capitali internazionali in cerca di lucrosi investimenti);

-         apertura ai capitali stranieri, che per lo più ha un effetto destabilizzante: “le piccole nazioni in via di sviluppo sono come barchette. Con la veloce liberalizzazione dei mercati auspicala dal FMI è stato come metterle in un mare in tempesta prima di riparare le falle dello scafo, prima che il comandante fosse pronto, prima che i giubbotti di salvataggio fossero caricati a bordo” [J. E. Stigliz, La globalizzazione e i suoi oppositori].

In certi casi è stata imposta la dollarizzazione (ad esempio in Argentina, Ecuador, Thailandia) che ha l’effetto perverso di far aumentare i prezzi (che si allineano a quelli internazionali) lasciando invariati i salari. La dollarizzazione inoltre penalizza le esportazioni mentre la liberalizzazione provoca l’arrivo di importazioni estere a basso costo che può minare la base industriale di un paese (è il caso dell’Argentina).

Uno dei più evidenti effetti degli ASP è l’“effetto forbice”: cioè l’aumento e la diffusione della povertà negli strati sociali bassi di contro all’aumento della ricchezza per pochi. L’esatto contrario del benessere diffuso… E’ evidente che questo provoca destabilizzazione sociale, proteste che a volte si organizzano in chiave etnica (perché certe regioni risultano più svantaggiate di altre).

La globalizzazione finanziaria, ormai in mano a una nuova generazione di finanzieri legati alle banche d’affari e sempre più lontani dalle funzioni imprenditoriali dell’economia reale, ha complicato ulteriormente le cose introducendo manipolazioni dei mercati valutari, speculazioni sui titoli di Stato (clamorosa fu la vicenda dei bond argentini), commistioni di attività legali e illegali.

 

Alcune questioni finali

Concluderemo questo incontro discutendo alcuni punti.

In primo luogo, possiamo chiederci se le politiche imposte dal FMI e dalla BM, di cui da almeno venticinque anni si possono vedere gli effetti negativi, siano semplicemente “errori” di valutazione. In parte senz’altro lo sono, non fosse altro perché le decisioni del FMI vengono prese esaminando rapporti standard, senza avvalersi di esperti locali, senza un’adeguata analisi della specificità del paese cui è diretto l’intervento. Ma è innegabile che in alcuni casi gli interventi di FMI e BM sono stati molto utili agli USA per fermare potenziali concorrenti (ad esempio, le cosiddette “tigri” del sud-est asiatico) o nemici (come la Russia).

Un’altra questione interessante è come mai non solo i paesi in via di sviluppo, ma anche l’Europa adotti politiche assai simili a quelle contemplate dagli ASP del FMI. L’Europa è certamente dominata dal capitale finanziario e bancario (i debiti pubblici vengono “stimati” da agenzie di rating come Moody’s e Standard & Poor, cui si adeguano le politiche economiche europee) e dall’ideologia monetarista delle Banche Centrali.

 

Bibliografia essenziale:

M. Chossudovsky, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, 1999

U. Mattei e L. Narder, Il saccheggio, Bruno Mondadori, 2010

J. E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002