Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

 

John Maynard Keynes

tratto da John Kenneth Galbraith, Storia della economia. Passato e presente, BUR, Milano 1997, pp. 246- 276.

 

A causa della pressione incessante degli eventi sulle idee economiche e dell'influenza dominante della Grande Depressione, gli anni Trenta furono, specialmente negli Stati Uniti, il decennio più innovativo. Come abbiamo già visto, ci fu un'azione diretta contro il calo dei prezzi industriali e agricoli; furono forniti aiuti e occupazione nelle opere pubbliche; nel 1935 si aggiunsero sussidi di disoccupazione e pensioni di vecchiaia. Rimaneva ancora il grave insuccesso del sistema nel suo insieme. Nel 1936, il quarto anno del New Deal, dopo una ripresa che risultò poi essere molto provvisoria, le spese per consumi erano basse; il 17% della forza lavoro americana era ancora disoccupato; e il prodotto nazionale lordo era solo il 95% del livello del lontano 1929. E questo nonostante le promesse di forti aumenti fatte ogni anno dai politici. Nel 1937 ci fu un altro forte crollo; poiché c'era già una depressione, si dovette trovare un nuovo termine e si parlò di recessione. Una recessione era una depressione all'interno di una depressione.

L'ortodossia classica non era in grado di indicare rimedi a nessuna di queste situazioni. Nel sistema classico, bisogna ripeterlo ancora una volta, l'economia trovava il suo equilibrio nella piena occupazione, e dalla piena occupazione derivava il flusso di domanda che sosteneva tale equilibrio. Era la Legge di Say. Una depressione era sempre possibile e, in realtà, accettata, ma solo come fenomeno transitorio, mentre questa, nel 1936, aveva già dietro di sé una storia di sei anni severi che erano sembrati interminabili. [...] Forse la banca centrale sarebbe potuta intervenire facendo diminuire i tassi di interesse, ma alla metà degli anni Trenta questi si trovavano già a livelli quasi nominali: non si potevano più incoraggiare prestiti e investimenti battendo su quel tasto.

Da queste circostanze emerse l'opera di John Maynard Keynes (1883-1946), la cui forza può essere vista solo alla loro luce. Gli argomenti essenziali della sua argomentazione erano definiti in modo semplice e diretto in funzione dell'obbiettivo di liberare le misure politiche contro la depressione dagli impedimenti della teoria classica. L'economia moderna, secondo Keynes, non trova necessariamente il suo equilibrio nella piena occupazione. Essa può trovarlo nella disoccupazione: nell'equilibrio della sotto-occupazione. La Legge di Say non vale più: può esserci una scarsità di domanda. Il governo può e dovrebbe prendere provvedimenti per ovviare a essa. In un periodo di depressione i preconcetti di una finanza pubblica sana devono sottomettersi a questo bisogno. L'equilibrio della sotto-occupazione, il ripudio della Legge di Say, la richiesta che il governo affronti spese non coperte da entrate per sostenere la domanda: questi furono i punti essenziali del sistema keynesiano [...]. Essi vennero a comporre quella che, con un'iperbole innocua, fu definita la Rivoluzione keynesiana.

 

Fra i caratteri più notevoli di questa rivoluzione, c'è il fatto di essere stata anticipata da molti. Ci furono keynesiani già molto tempo prima di Keynes. Uno di essi fu Adolf Hitler, che nell'assumere il cancellierato nel 1933, senza lasciarsi impacciare da alcuna teoria economica, varò un grande programma di opere pubbliche, di cui l'esempio più vistoso furono le Autobahnen (autostrade). Le spese per opere pubbliche furono seguite solo molto tempo dopo dalle spese per gli armamenti. I nazisti non si lasciarono condizionare nemmeno dalla limitazione delle entrate fiscali: il finanziamento in disavanzo era dato per scontato. L'economia tedesca uscì dalla depressione distruttiva di cui aveva sofferto in precedenza. Nel 1936 la disoccupazione, che aveva avuto un'influenza grandissima nel portare Hitler al potere, era stata sostanzialmente eliminata.

Il mondo economico non si lasciò impressionare: Hitler e i nazionalsocialisti non erano un modello da imitare. Visitando il Reich di quegli anni, diversi economisti e le voci più autorevoli della scienza finanziaria ne previdero quasi unanimemente il disastro economico. In conseguenza di indirizzi economici sconsiderati, se non folli, l'economia tedesca era secondo loro destinata a crollare; il nazionalsocialismo sarebbe stato screditato e sarebbe scomparso. Heinrich Brüning, il cancelliere inflessibilmente ortodosso che aveva governato nel precedente periodo di disoccupazione e di miseria, entrò a far parte del personale docente di Harvard, dove non perse occasione di parlare, a ogni pubblico disponibile, delle gravi conseguenze che sarebbero seguite all'abbandono, da parte della Germania, dei suoi indirizzi rigorosamente austeri, indirizzi che negò recisamente avessero avuto qualche influenza sulla disperazione che aveva condotto all'ascesa del nazismo.

Più civile, e associato più strettamente a un pensiero economico ponderato e sollecito del bene comune, fu il caso della Svezia. Qui, per due generazioni, un gruppo vigile di economisti si era impegnato in una discussione critica delle idee economiche nella loro incidenza sugli affari pubblici. E andando oltre la discussione, l'insegnamento e persino gli scritti, essi avevano tradotto i loro concetti e i loro indirizzi in politica pratica e in un modo concreto di amministrare la cosa pubblica. La figura fondatrice della prima generazione fu Knut Wicksell (1851-1926), uno studioso nella tradizione classica e utilitaristica, ma con un'intelligenza fortemente indipendente e originale e con un notevole talento per un comportamento imprevedibile e, di tanto in tanto, per vere e proprie eresie. Egli fu severamente criticato per aver sostenuto il controllo delle nascite; e quando nel 1908, in una pubblica conferenza, fece qualche riferimento men che devoto all'Immacolata Concezione, fu condannato a due mesi di carcere. Si pensava che gli economisti  dovessero essere meno eclettici nelle loro eresie.

Le opinioni di Wicksell anticiparono molte argomentazioni posteriori; in particolare, anticipando Chamberlin e la Robinson, egli pensò che monopolio e concorrenza fossero agli estremi opposti di una spettro che comprendeva in posizioni intermedie molte forme di organizzazione del mercato. Questi e altri atteggiamenti irriverenti verso i concetti ortodossi lo sospinsero in un conflitto, destinato a durare per tutta la sua vita, con Gustav Cassel (1866-1944), il pilastro del conservatorismo economico svedese e, in qualche misura, europeo. Cassel fu un saldo difensore del sistema classico, del regime aureo e di un ruolo se non minimo almeno appropriatamente limitato dello Stato in campo economico. [...] Nell'opposizione a Cassel ebbe un ruolo di rilievo una seconda generazione di studiosi notevolmente originali, formata tra gli altri da Gunnar Myrdal, Bertil G. Ohlin, Erik Lindahl, Erik F. Lundberg e Dag Hammarskjöld, futuro segretario generale delle Nazioni Unite, morto nel corso di una missione. [...] All'aggravarsi della depressione, la loro attenzione si rivolse specificamente ai fenomeni risultanti della deflazione dei prezzi, della diminuzione della produzione, della disoccupazione e della crisi agricola. Nella compatta comunità svedese, gli economisti furono in contatto stretto, e in realtà quotidiano, con i leader politici e i pubblici funzionari o agivano direttamente in questi ruoli. Da questa cooperazione emerse un vasto disegno per ridurre al minimo le difficoltà e per migliorare il funzionamento complessivo dell'economia. Questo disegno comprendeva quello che era - in relazione ai criteri del tempo - un sistema di previdenza sociale ben sviluppato. Esso prevedeva inoltre un sostegno ai prezzi agricoli e, come correzione e correttivo all'usuale imprenditorialità capitalistica e concorrenziale, un sistema altamente strutturato di cooperative agricole e di consumatori.

Particolarmente importante ci sembra però oggi l'uso deliberato del bilancio dello Stato per sostenere la domanda e l'occupazione. La depressione indusse gli economisti di Stoccolma ad abbandonare la speranza che l'azione della banca centrale di abbassare i tassi di interesse potesse rivelarsi utile a espandere le spese di investimento e la domanda. Di nuovo, era inutile battere su quel tasto. Essi ritenevano invece che nei tempi di prosperità il bilancio dello Stato dovesse essere in equilibrio, mentre in periodi di depressione lo si dovesse squilibrare deliberatamente, così che l'eccesso delle spese sulle entrate sostenesse la domanda e l'occupazione.

Negli anni Trenta, a Stoccolma, con molto anticipo rispetto a Keynes, si diceva e si faceva tutto questo: in un mondo che badasse alla precisione terminologica si dovrebbe parlare non di Rivoluzione Keynesiana ma di Rivoluzione svedese. Alla metà del decennio, in realtà, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si cominciava a parlare di sviluppi del pensiero svedese. In un mondo turbato dall'idea che il socialismo e il comunismo fossero le uniche alternative a un capitalismo rigorosamente ortodosso, la Svezia, con il suo sistema assistenziale ora ben sviluppato, le sue cooperative di consumatori e di agricoltori, la sua generale tolleranza nei confronti di modifiche e correzioni al rigore classico e il suo bilancio dello Stato usato per sostenere la domanda, veniva presentata come "via di mezzo"[1]. Ma, come osservò Ben B. Seligman[2], la barriera della lingua fu per molto tempo scoraggiante. Inoltre non ci si attendeva che grandi idee economiche venissero da paesi piccoli.

 

Ci furono antecedenti a Keynes anche negli Stati Uniti. Negli anni Venti William Trufant Foster (1879-1950) e Waddill Catchings (1879-1967), il primo un economista di reputazione eccentrica, il secondo un Wunderkind della promozione (e dei disastri) dei grandi fondi comuni di investimento anteriori e successivi alla crisi del 1929,  pubblicarono una serie di libri nei quali si raccomandava energicamente un intervento del governo a sostegno della domanda. Il loro bersaglio era la Legge di Say e le convinzioni economiche che la sostenevano: «Questi signori del campo della teoria economica [gli economisti classici] supponevano semplicemente, senza neppure tentarne una dimostrazione, che il finanziamento della produzione stessa fornisse alla gente un potere d'acquisto»[3].

Le idee di Foster e Catchings esercitarono una certa attrattiva sul pubblico; nei primi anni della depressione ebbero un considerevole ascolto e furono oggetto di discussioni fra i profani. Fra gli economisti rispettabili esse svolsero però semplicemente la funzione di un errore popolare e superficiale, e furono citate nell'insegnamento spicciolo solo per mostrare la tendenza a un tale errore[4].

Infine, fra le anticipazioni di Keynes negli Stati Uniti ci fu un'applicazione molto pratica di quella che sarebbe stata la sua prescrizione centrale: ossia che dovevano esserci spese statali finanziate attraverso prestiti per sostenere la domanda e l'occupazione. Per la maggior parte degli anni Trenta, il governo federale gestì un disavanzo consistente. A cominciare dal 1033, questo fu accresciuto da spese per l'assistenza diretta, per opere pubbliche e per altri impieghi pubblici, attraverso la Federal Emergency Relief Administration, la Public Works Administration, la Civil Works Administration e la Works Progress Administration. Nel 1936, dopo tre anni pieni di New Deal e in quello che può essere descritto come l'anno di Keynes, le entrate federali erano solo il 59%, poco più di metà, delle uscite. Il disavanzo ammontava al 4,2 % del corrente prodotto nazionale lordo[5]. La gravità della situazione, quella forza resistente a ogni trattamento nella politica economica, aveva già richiesto ciò che sarebbe stato raccomandato da Keynes. Quel che era necessario non fu però approvato. La circostanza non scusò l'errore finanziario. Di conseguenza, agli occhi di molti, non escluso lo stesso Franklin D. Roosevelt, la politica economica keynesiana sarebbe apparsa per molto tempo non un atto di saggezza economica bensì una complessa razionalizzazione di ciò che si era rivelato politicamente inevitabile.

 

La difesa della politica keynesiana comprese inizialmente forti tentativi di persuasione compiuti dallo stesso Keynes. In una notevole lettera aperta al presidente, pubblicata nel New York Times del 31 dicembre 1933, durante il primo anno del New Deal, Keynes didde alla nuova amministrazione che egli attribuiva un'importanza grandissima all'aumento del potere d'acquisto nazionale risultante da spese del governo finanziate da prestiti[6], e l'anno seguente ebbe un incontro con Roosevelt, nel corso del quale tentò, in verità senza molto successo, di convincerlo della bontà di tale tesi. Nessuno dei suoi sforzi precedenti ebbe però un'importanza paragonabile a quella della pubblicazione, nel 1936, dell'opera The General Theory of Employment Interest and Money[7], che nella storia dell'economia fu un evento di importanza paragonabile alla pubblicazione di Wealth of Nations di Adam Smith nel 1776 e della prima edizione del Capitale di Marx nel 1867. Quello fu, conformemente alle intenzioni di Keynes, un colpo mortale alle conclusioni classiche[8] concernenti la domanda, la produzione e l'occupazione e alla politica economica che ne derivava.

Come ora sarà chiaro, The General Theory dovette in gran parte la sua accettazione alla Grande Depressione e all'incapacità degli economisti classici di affrontare con successo quell'evento intimamente sconvolgente. Ma la dovette in grande misura anche alla sicurezza di sé di Keynes nel ragionamento e nell'analisi economica, alla fiduciosa originalità della sua espressione e del suo carattere. Si dovrebbe insistere particolarmente sulla fiducia in se stesso. Nessun economista viene mai stimato più di quanto stimi se stesso o seguito con più certezza di quanta ne manifesti egli stesso. L'influenza di Keynes dovette molto anche alla sua formazione personale, alla sua reputazione e al suo prestigio. Se The General Theory fosse stata scritta da una persona priva di queste credenziali, avrebbe potuto sparire senza lasciare traccia. Parliamo ora brevemente di queste credenziali.

 

Le credenziali familiari e accademiche di Keynes difficilmente sarebbero potute essergli di maggiore aiuto. Il padre, John Neville Keynes, era un economista di reputazione eccellente dell'Università di Cambridge. Per quindici anni fu il registary, ossia il principale funzionario amministrativo, dell'università. La madre di John Maynard, Florence Ada Keynes, si occupava con impegno dei problemi della collettività e in seguito divenne sindaco di Cambridge. Entrambi sopravvissero al loro famoso figlio e furono presenti al suo funerale all'abbazia di Westminster nell'aprile 1946. John Maynard Keynes (1883-1946) studiò a Eton e poi all'università di Cambridge [...]. Dopo essersi laureato a Cambridge nel 1905 si presentò agli esami per entrare nell'amministrazione dello Stato, ma fece male in economia: «Evidentemente conoscevo sull'economia più dei miei esaminatori»[9]. Sopravvissuto a questa ignoranza dei funzionari statali, prestò servizio per un po' di tempo nell'India Office, scrisse un libro molto tecnico che ebbe buone accoglienze sulla teoria della probabilità, ne cominciò un altro sulla moneta indiana e tornò a Cambridge con una borsa di studio assegnatagli personalmente dal professor Arthur Pigou.

La guerra 1914-1918 e il successiva dopoguerra apportarono a Keynes la fama, e anche quella sicurezza che in seguito avrebbe caratterizzato la sua voce pubblica e l'avrebbe resa influente e infine irresistibile. Durante questi anni lavorò al Ministero del Tesoro, dove si fece una grande reputazione per la competenza e l'inventiva con cui seppe occuparsi dei profitti della Gran Bretagna negli scambi con l'estero, dei ricavi dei prestiti e dei proventi di titoli sottoscritti e venduti all'estero [...]. Alla fine della guerra Keynes era così ben conosciuto per la sua abilità nella politica economica e nell'amministrazione che fu designato a far parte della delegazione britannica alla Conferenza per la pace di Parigi del 1919, un incarico di grande interesse e distinzione.

Il comportamento di un giovane specialista - Keynes aveva ora trentasei anni - ammesso a far parte di un gruppo di persone così imponente come quello che si riunì alla Conferenza di Parigi e che comprendeva David Lloyd George, Georges Clemanceau, Woodrow Wilson, e investito di un compito così grande e difficile come quello di assicurare la pace del mondo, dovrebbe essere del tutto prevedibile. Un uomo prescelto in una situazione del genere, e straordinariamente onorato da una tale scelta, dovrebbe essere appagato dalla gratificazione risultante e dall'invidia di altri non egualmente fortunati; egli dovrebbe offrire consigli con tutta la deferenza del caso, e dovrebbe accettare e perfino difendere con tutte le sue forze il risultato della consultazione, per quanto sgradito, sconsiderato o bizzarro potesse essere ai suoi occhi. Comportarsi in modo diverso significherebbe negare la saggezza che ha portato alla sua scelta e diminuire la propria stima di sé. Keynes, che non aveva bisogno di accrescere una stima di sé già abbastanza elevata, abbandonò Parigi nel giugno 1919 in una disposizione di profondo disprezzo per come stavano procedendo i lavori. Tornato in Inghilterra, mise per iscritto le sue opinioni sull'argomento in The Economic Consequences of the Peace[10], che completò nel giro di due mesi.Il libro fu pubblicato in Inghilterra entro la fine di quello stesso anno ed ebbe un grande successo (dell'edizione inglese si vendettero 84.000 copie), fu tradotto in molte lingue e rimane ancora oggi il documento economico più importante sulla prima guerra mondiale e sugli anni successivi.

Questo libro è anche, come è stato detto, una delle diatribe più eloquenti che siano mai state scritte. Nel libro lo stato d'animo dei vincitori riuniti a Parigi è descritto come vendicativo, miope e profondamente irrealistico. Tali appaiono anche i grandi statisti: Wilson, questo «Don Chisciotte cieco e sordo»[11]; Clemanceau, che aveva «un'illusione: la Francia; e una disillusione: il genere umano»[12]; Lloyd George, in un passo che fu cancellato all'ultimo momento, «questo bardo dal piede caprino, questo visitatore semiumano nel nostro tempo proveniente dai boschi stregati e incantati dell'antichità celtica»[13].

Furono però le clausoledi riparazione a suscitare la condanna professionale di Keynes. La Germania non poteva, secondo lui, pagare le indennità fissate, per quanto elevate potessero essere le entrate per le sue esportazioni; lo sforzo e il conseguente dissesto commerciale e finanziario avrebbero penalizzato non solo il nemico sconfitto ma anche l'Europa intera. Da questa conclusione, più che da qualsiasi altra fonte, venne negli anni Venti e Trenta l'opinione che le condizioni di pace fossero state in realtà cartaginesi. La Germania smise così di essere vista come un aggressore punito e venne concepita piuttosto come una vittima. Tale fu l'eredità di Keynes.

Ma ci fu anche un'altra conseguenza a più lungo termine. Dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l'idea di riparazioni imposte alla Germania sotto forma di pagamenti in denaro fu universalmente ripudiata; l'errore denunciato da Keynes non doveva ripetersi. Questa volta ci sarebbero state, invece, più ragionevolmente, riparazioni in natura, particolarmente nella forma di impianti e attrezzature. Purtroppo, a parte il fatto di rivelarsi poco pratiche, le riparazioni sotto questa forma risultarono essere semmai ancora più disastrose. Lavoratori e intere comunità dovettero assistere allo smantellamento delle fabbriche e delle macchine da cui dipendeva la loro sussistenza, i cui pezzi venivano portati via per essere rimontati in altri paesi [...].

Negli anni Venti e all'inizio degli anni Trenta Keynes scrisse moltissimo, si interessò d'arte, fu direttore del New Statesman and Nation, lavorò per il principale comitato di ricerca governativo per la finanza e l'industria, fu direttore del consiglio di amministrazione di una società di assicurazioni, fu fellow e tesoriere del King's College a Cambridge e si dedicò alle speculazioni, dapprima con risultati disastrosi - tanto che dovette essere salvato dal padre e da amici del mondo degli affari - e in seguito con successo, per proprio conto e, cosa più notevole in considerazione delle ragionevoli restrizioni imposte a tale azione, per conto del King's Vollege.

Nel 1925 il problema del regime aureo e la minaccia ben presto realizzatasi di quella che egli chiamò "una stagione tempestosa", lo portarono a un conflitto polemico con l'allora cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill. Il dissenso riguardava il ritorno della sterlina, dopo il deprezzamento degli anni della guerra, al suo vecchio valore in oro di 123,27 grani di oro fine e alla sua vecchia parità con il dollaro a 4, 87 dollari per sterlina. Questo risultato era richiesto da tutta la solenne scienza e tradizione finanziaria, ma la sterlina pesante ebbe anche la conseguenza di far salire i prezzi dei prodotti di esportazione britannici - compreso in particolare il carbone - del 10% circa al di sopra del mercato mondiale. Nei suoi effetti sulle esportazioni e sulle importazioni, la sterlina pesante era l'esatto opposto della politica di Roosevelt di acquisto di oro. Perché le esportazioni britanniche rimanessero competitive, dovevano calare i prezzi, e dunque i costi, e specialmente i salari. Gradualmente, dolorosamente, dopo uno sciopero lungo e amaro nei bacini carboniferi e dopo il grande sciopero generale del maggio 1926, furono conseguite le riduzioni salariali. Il ritorno della Gran Bretagna al regime aureo nel 1925 rimane ancora una delle decisioni più chiaramente sbagliate nella storia lunga e impressionante dell'errore economico.

Keynes fu spietato nella sua opposizione e specialmente nelle sue critiche a Churchill [...]. Keynes chiese: «Perché [Churchill] ha commesso una simile sciocchezza?» e poi rispose alla propria domanda dicendo che Churchill non aveva «quella capacità istintiva di giudizio che trattiene dal commettere errori. [...] Si è lasciato assordare dalle numerose richieste dell'ambiente finanziario tradizionale; e soprattutto [...] è stato indotto in errore dai suoi esperti»[14]. Avendo già trovato in precedenza un buon titolo, Keynes non esitò a usarlo una seconda volta. Il saggio contenente questo attacco si intitolò The Economic Consequences of Mr. Churchill.

Infine, nel 1930 Keynes pubblicò l'opera in due volumi A Treatise on Money, che fu salutata come un'opera fondamentale del suo tempo. Essa comprendeva una affascinante storia del denaro, il pensiero notevole che l'oro doveva la sua distinzione a un richiamo freudiano e il calcolo che l'accumulazione totale del metallo al mondo dall'inizio dei tempi poteva (e senza dubbio può ancora) essere trasportato da una costa dell'Atlantico all'altra su una singola nave. C'erano anche idee che anticipavano The General Theory: «Si potrebbe supporre - ed è stato supposto spesso - che la quantità di investimento sia necessariamente uguale alla quantità di risparmio. Ma un po' di riflessione dimostrerà che non è così»[15]. Qui, in linguaggio moderato, era espressa quella che sarebbe risultata essere un'osservazione importante: non ci si può attendere che tutti i redditi ritornino sotto forma di domanda di beni e servizi, come era stato prescritto dalla Legge di Say. Una parte di essi può perdersi per via sotto forma di risparmi non usati o non investiti. [...]

Keynes fu un maestro lucido e dotato di una prosa particolarmente brillante, così come lo erano stati Smith, Bentham, Malthus, i due Mill, Marshall e Veblen. Con la sola possibile eccezione di Ricardo, tutti gli autori importanti nella storia del pensiero economico di lingua inglese ebbero doti di grandi scrittori. The General Theory of Employment Interest and Money, però, è un'opera complessa, male organizzata e a volte oscura, come riconobbe lo stesso Keynes, notando che il grande pubblico, «anche se benvenuto al dibattito, non può far altro che origliare» questo sforzo necessariamente tecnico di persuadere i suoi colleghi economisti. Ben poche persone fuori del campo dell'economia di professione hanno mai accettato l'invito di Keynes a origliare.

Eppure le idee centrali sono, come abbiamo già indicato, relativamente pacifiche. Il problema decisivo dell'economia non è come si determini il prezzo delle merci, né come si distribuisca il reddito risultante. La questione importante è come si determini il livello della produzione e dell'occupazione. All'aumentare della produzione, dell'occupazione e del reddito diminuisce il consumo dagli incrementi addizionali di reddito: nella formulazione di Keynes, diminuisce la propensione marginale al consumo. Ciò significa che i risparmi aumentano. Non c'è alcuna sicurezza, come ritenevano gli economisti classici, che, a causa di tassi di interessi ridotti, questi risparmi saranno investiti, ossia spesi. Essi possono rimanere inutilizzati per tutta una serie di ragioni cautelative che possono riflettere il bisogno o il desiderio dell'individuo o dell'impresa di credito liquido: per usare di nuovo un'espressione di Keynes, la sua preferenza per la liquidità. Se alcune entrate vengono tesaurizzate e non spese, l'effetto risultante è quello di ridurre la domanda di beni e servizi - la domanda effettiva complessiva - e quindi, indirettamente, la produzione e l'occupazione. E la riduzione continuerà fino a determinare una riduzione del risparmio. Ciò accade quando la crescente propensione marginale a consumare viene spinta, o addirittura forzata, dal diminuire dei redditi. [...]

Come nell'opinione classica, risparmi e investimenti devono essere uguali; i risparmi devono essere assorbiti completamente dall'investimento. La differenza consiste nel fatto che essi non sono più necessariamente uguali, o addirittura normalmente uguali, in una condizione di piena occupazione. Far sì che i risparmi siano uguali all'investimento e assicurare quindi che vengano spesi integralmente può richiedere una diminuzione dei redditi e una condizione di deprivazione. Ne deriva che la situazione di equilibrio in economia può non trovarsi in corrispondenza della piena occupazione: essa può trovarsi a livelli diversi e persino gravi di disoccupazione. Questa nozione divenne nota, come abbiamo visto, come equilibrio della sotto-occupazione. Era qualcosa che nel 1936 poteva essere osservato anche da chi non avesse una preparazione specialistica.

Quando la disoccupazione si verificava nel contesto classico, eccezion fatta per quei lavoratori che stavano cambiando lavoro o che erano disoccupati a causa del divario fra le loro capacità e le loro richieste economiche, la causa data per scontata era che i salari erano troppo alti o troppo rigidi. La causa ovvia erano i sindacati e le loro richieste: se si fossero abbassati i salari, quale che fosse stata la resistenza dei lavoratori, gli operai disoccupati sarebbero potuti tornare a lavorare. Con Keynes la situazione mutò in modo molto significativo: quel che era vero per il singolo imprenditore non lo era per tutti. Questo, bisogna ricordarlo, è ciò che gli economisti, parlando della tendenza a procedere dal semplice al complesso, come per esempio dalle finanze della famiglia a quelle dello Stato, chiamano l'errore della composizione. Se tutti gli imprenditori, in un periodo di disoccupazione, dovessero abbassare i salari, il flusso del potere d'acquisto - il complesso della domanda effettiva - diminuirebbe di pari passo con il diminuire dei salari. La diminuzione della domanda effettiva comporterebbe allora un aumento della disoccupazione, e la disoccupazione in questo caso non potrebbe essere imputata ai salari alti o ai sindacati. Herbert Hoover e Franklin D. Roosevelt erano stati d'accordo almeno su questa politica: entrambi si erano opposti a riduzioni salariali. Gli economisti, in accordo con la loro fede classica, avevano criticato aspramente i due presidenti, ma secondo Keynes essi avevano entrambi ragione.

Con la diagnosi venne la cura. I governi non potevano più attendere che fossero le forze autocorrettive del mercato a fornire un rimedio: l'equilibrio della sotto-occupazione poteva essere stabile e persistente. Non potevano più attendere che la disoccupazione facesse abbassare i salari: una tale attesa avrebbe potuto condurre a un equilibrio a un livello più basso di produzione e di occupazione. Non si poteva contare sulla diminuzione dei tassi di interesse per accrescere gli investimenti e le spese di investimento: tassi di interesse bassi non facevano che rafforzare la preferenza per la liquidità. Perché rinunciare in cambio di una rendita nominale ai diversi vantaggi di avere presso di sé il denaro? Cosa ancora più plausibile, c'era il fatto anche troppo evidente della scena economica corrente: persino i tassi di interesse incredibilmente bassi allora praticati non stimolavano l'investimento in presenza di una grande capacità in eccesso e dell'assemza di un profitto plausibile.

Rimane una possibilità, solo una: l'intervento del governo per aumentare il livello degli investimenti. Occorreva che il governo contraesse prestiti e spendesse a fini pubblici. Ciò presuppone un disavanzo deliberato. Solo in questo modo si sarebbe rotto l'equilibrio della sotto-occupazione, spendendo deliberatamente i risparmi accantonati - e non utilizzati - del settore privato. Era una potente affermazione della saggezza di ciò che si stava già facendo sotto la pressione delle circostanze.

 

Questi sono gli elementi essenziali della rivoluzione keynesiana. [...] Un suo aspetto passò in gran parte sotto silenzio: impressionati dall'entità del mutamento, gli economisti non si soffermarono a riflettere su quanto restava immutato. Da quel momento in poi sarebbe andata allo Stato la responsabilità del funzionamento generale dell'economia. Ci sarebbe stato disaccordo sulle misure da prendere, non sulla responsabilità del governo o, al minimo, della banca centrale. La fede in una piena occupazione conseguita autonomamente in condizioni di prezzi stabili, eccezion fatta per situazioni peculiari, era finita. L'insegnamento e le discussioni su come si potessero conseguire piena occupazione e stabilità dei prezzi si sarebbero ora separati in una branca speciale dell'economia, chiamata macroeconomia. Usando la parola contratta di suono assai poco gradevole, alcuni economisti si riferiscono alla specialità chiamandola "macro". Keynes lasciò intatta la microeconomia, che in gergo professionale altrettanto repellente sarebbe stata chiamata "micro". Nella microeconomia il mercato restava come prima, e lo stesso vale per l'impresa e per l'imprenditore. E per il monopolio, la concorrenza, la concorrenza imperfetta e la teoria della distribuzione. Questo, in breve, era il sistema classico, rimasto in gran parte intatto.

Keynes liberò il capitalismo dall'incubo della depressione e della disoccupazione, o almeno quello era il suo intento. Egli eliminò in tal modo l'aspetto che il capitalismo non era in grado di spiegare e al quale, secondo Marx, non sarebbe riuscito a sopravvivere. Ma questo fu tutto o quasi tutto. La rivoluzione keynesiana, così considerata, fu una cosa non solo limitata ma anche intensamente conservatrice. Il 1 gennaio 1935, in risposta a una lettera di George Bernard Shaw che richiamava la sua attenzione su un'osservazione fatta da Marx, Keynes rispose: «Per capire il mio stato d'animo, però, lei deve sapere che sto scrivendo un libro sulla teoria economica che secondo me rivoluzionerà in gran parte - non subito, penso, ma nel corso dei prossimi dieci anni - il modo in cui il mondo riflette sui problemi economici»[16]. Quell'aspettativa non era del tutto ingiustificata. Ci fu effettivamente un mutamento. Ma in contrasto con il mutamento a un tempo sollecitato e previsto da Marx, il risultato conseguito da Keynes consistette nel permettergli di restare immutato.

Nei due decenni seguenti, specialmente negli Stati Uniti, il nome di Keynes avrebbe acquistato una patina di radicalismo. Nel mondo economico i keynesiani sarebbero stati considerati nemici dell'ordine costituito quanto i marxisti, e un pericolo più chiaro e incombente. Ecco un'altra costante della vita economica: fra un disastro catastrofico e le riforme conservatrici che potrebbero scongiurarlo, spesso si preferisce il primo.

 

[...]

 

Per il sistema keynesiano la guerra ebbe conseguenze importanti. Essa portò gli economisti in posizioni di potere a Washington: tutti gli enti di guerra erano amministrati o guidati in misura più o meno grande da economisti che appartenevano in gran parte alla più giovane generazione keynesiana. La generazione anteriore, legata alla teoria classica, non fu similmente reclutata. [...]

Ma il vero contributo della guerra a diffondere le idee di Keynes consistette nel mostrare cosa l'economia poteva realizzare attraverso l'intervento dello Stato. Dal 1939 al 1944, il culmine corrispondente al tempo di guerra, il prodotto nazionale lordo in dollari costanti (1972) aunentò da 320 a 569 miliardi di dollari, ossia quasi raddoppiò. In mezzo a tanto parlare di privazioni del tempo di guerra, le spese per il consumo personale in dollari similmente costanti non diminuirono, aumentando anzi da 220 a 255 miliardi. La disoccupazione nel 1939 fu stimata pari al 17% della forza lavoro civile, mentre nel 1944 era scesa al valore irrilevante dell'1,2%. I prodotti duraturi che utilizzavano il metallo, come nuove automobili, erano scomparsi dallo stile di vita standard, ma nel complesso nell'ultimo anno di guerra il tenore di vita degli americani era più alto di quanto non fosse mai stato in passato. Che questo fosse il risultato della pressione crescente della pubblica domanda sull'economia - gli acquisti da parte del governo federale di beni e servizi in questi anni aumentarono da 22,8 miliardi di dollari nel 1939 a 269,7 miliardi nel 1944 - nessuno poteva metterlo seriamente in dubbio. Marte, il dio della guerra, nel suo corso ineluttabile e imprevedibile, aveva fornito a favore di Keynes una dimostrazione superiore a ciò che si sarebbe potuto chiedere.

 

 


 

[1] Quest'espressione si trova nel titolo del libro del marchese W. Childs, che richiamò su di sé grande interesse, Sweden: the Middle Way, Yale University Press, 1936.

[2]  In Main Currents in Modern Economics, Free Press of Glencoe, New York 1962, p. 539 e ss. Quest'opera enorme si esprime in termini grandemente e giustamente elogiativi nei confronti degli economisti svedesi.

[3]  William Trufant e Waddill Catchings, The Road to Plenty, Houghton Mifflin, Boston 1928, p. 128.

[4] Ma non da tutti. John H. Williams (1887-1980), per molto tempo professore a Harvard molto stimato, specializzato sulla moneta e le attività bancarie - e che fu anche un funzionario della Federal Reserve Bank di New York - interessò i suoi studenti e sorprese i suoi colleghi dicendo che Foster e Catchings avevano colto un punto che non poteva essere ignorato.

[5] Per confronto, il disavanzo ardentemente discusso del 1986 fu di circa il4,9% del prodotto nazionale lordo.

[6] Cit. da R. F. Harrod, The Life of John Maynard Keynes, Harcourt Brace, New York 1951, p. 447 (tr. it. di B. Maffi, La vita di J. M. Keynes, Einaudi, Torino 1965).

[7] Harcourt Brace, New York (tr. it. di A. Campolongo, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, UTET, Torino 1971). Keynes evitò le virgole nel titolo; i commentatori successivi le introducono quasi invariabilmente.

[8] Osservo qui di nuovo che, come Keynes, uso l'aggettivo classico per indicare l'intero corso del pensiero ortodosso da Smith a Ricardo. Al tempo di Keynes ci si riferiva di solito all'economia neoclassica, la quale veniva considerata un passo avanti rispetto all'economia classica. Non c'era però una frattura netta rispetto all'argomentazione anteriore: il nuovo termine prendeva atto solo dei numerosi affinamenti di cui è stata fatta menzione in questa storia. "Economia classica" è un'espressione meglio fondata per la corrente di pensiero tradizionale almeno fino a Keynes.

[9] Cit. da Harrod, op. cit., p. 121.

[10] Harcourt, Brace and Howe, New York 1920.

[11] J. M: Keynes, The Economic Consequences of the Peace, cit., p. 41.

[12] Ivi, p. 32.

[13] Cit. da Harrod, op. cit., p. 256.

[14] John Maynard Keynes, Essays in Persuasion, Random House, New York 1966, p. 47 (tr. it. di S. Boba, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 192).

[15] J. M. Keynes, A treatise on Money, Harcourt Brace, New York 1930, vol. I, p. 172.

[16] Cit. da Harrod, op. cit., p. 462.