Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

La cosiddetta accumulazione originaria

 

Il processo di produzione capitalistico si presenta, alla fine del libro I del Capitale di Marx,  come un meccanismo che si autoriproduce, capace di autoalimentarsi all'infinito. Rimane un problema: come è iniziato questo moto perpetuo? La questione viene affrontata nel capitolo dedicato alla "cosiddetta accumulazione originaria"[1], ossia al problema storico dell'origine del capitalismo, cui abbiamo già accennato nei capitoli precedenti a proposito della importante distinzione tra ordine logico o concettuale e ordine storico o genetico, tracciata da Marx in diretta polemica con lo hegelismo. La sovrapposizione dei due ordini caratterizza in effetti l'approccio della scuola classica, che assegna alla categoria analitica chiave della teoria del valore, il lavoro, anche il compito di spiegare la storia: la ricchezza deriva dal lavoro, e la ricchezza nelle mani di pochi, ossia il capitale, deriva dal lavoro passato di chi la detiene:

 

"C'era una volta, in un'età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente, lavoratrice e risparmiatrice, e dall'altra c'erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più [...]. Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all'ultimo altro da vendere che la propria pelle"[2].

 

La critica che Marx rivolge al carattere ideologico di queste spiegazioni "idilliache" - "insipide bambinate", come le definisce - è evidente fin dai toni sprezzanti. Meno evidente è l'inversione di rotta sul piano metodologico che la sua diversa proposta interpretativa contiene: così poco evidente che, come vedremo, non sarà recepita dal marxismo successivo. Secondo Marx, per capire l'origine del capitalismo non serve uno strumento analitico come la teoria del valore: tale costrutto teorico è adatto a spiegare il funzionamento attuale e lo sviluppo immanente di tale modo di produzione, ma il suo impiego per indagare epoche che capitalistiche non sono produce solo miti, storie "idilliache", apologetiche dell'ordine presente. Ciò che serve davvero, è una seria indagine storica, e "nella storia reale la parte importante è rappresentata [...] dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassionio e dalla rapina, in breve dalla violenza"[3]. Non si tratta dunque di ipotizzare un improbabile funzionamento della produzione e dello scambio basati sul valore-lavoro in epoche passate (come fa ad esempio Adam Smith supponendo che  il capitalismo si sviluppi a partire da una mitica "società mercantile semplice"), ma di ricostruire la genesi storica di quelle che sono le condizioni sociali della produzione capitalistica (e dunque anche dello scambio di equivalenti interpretabile mediante la teoria del valore-lavoro che caratterizza tale modo di produzione): condizioni che, come sappiamo, sono l'esistenza di una classe di possessori di capitale e l'esistenza di una classe di lavoratori "liberi" nel senso a suo tempo chiarito, ossia liberi da vincoli di tipo feudale e privi di mezzi di produzione.

 

Queste condizioni non sono il risultato di un unico processo storico: non esiste cioè una "legge della storia" che trasforma il feudalesimo in capitalismo secondo una logica e una direzione univoche, ma esistono tanti percorsi storici differenziati, sfasati nel tempo, che avanzano e a volte regrediscono in tempi, modi e luoghi diversi, procedendo per un lungo periodo senza incrociarsi in modo significativo e senza mostrare una logica necessitante.

Una è la storia della genesi del proletariato: fondamentalmente, è la storia della "espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre"[4], che comprende processi differenziati nei vari paesi e nelle diverse epoche. Per la sola Inghilterra Marx individua almeno tre tappe significative, e suscettibili di diverse interpretazioni causali: lo scioglimento dei seguiti feudali tra il XV e il XVI secolo, parte di un più vasto processo di rafforzamento della monarchia (dunque riferibile a una logica "politica"); la massiccia trasformazione in pascolo di terre coltivate intorno alla fine del XV secolo, in seguito allo sviluppo del commercio della lana (in questo caso vediamo operare una causa "economica"); successivamente una tappa importante è rappresentata dalla espropriazione di beni ecclesiastici seguita alla Riforma (in questo caso abbiamo a che fare con una vicenda "politico-religiosa"); infine, a partire dal XVIII secolo, un ruolo importante viene svolto dall'attività legislativa dello Stato nello smantellamento delle residue proprietà demaniali e comuni (attraverso le Inclosures, leggi per la recinzione delle terre comuni) e nel controllo della popolazione rurale espropriata (leggi contro il vagabondaggio e per l'avvio al lavoro). A proposito di quest'ultimo periodo, in cui finalmente si manifesta un nesso diretto tra l'espulsione della popolazine rurale dalle terre e lo sviluppo della produzione capitalistica, Marx sottolinea come la diffusione del rapporto di lavoro salariato non dipenda affatto da "naturali" leggi economiche, ma da provvedimenti coercitivi di natura extraeconomica:

 

"[...] la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio di fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato [...]. Per il corso ordinario delle cose l'operaio può rimanere affidato alle 'leggi naturali della produzione', cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per 'regolare' il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l'operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E' questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria"[5].

 

Un'altra è la storia della genesi del capitale, ossia la storia estremamente variegata e molteplice della formazione di grandi masse di ricchezza in forma di denaro. Marx ricostruisce in particolare la vicenda del capitale usurario e quella del capitale commerciale[6], quest'ultima legata soprattutto allo sfruttamento dei territori di conquista e delle colonie, e dunque a uno scambio essenzialmente ineguale, per usare un eufemismo. La formazione di questi "capitali" non conduce necessariamente al capitalismo: si verificano anzi periodici ritorni alla terra delle borghesie commerciali, che rinsaldano rapporti di tipo feudale. Solo alla fine del XVII secolo, secondo Marx, in Inghilterra si verifica una "combinazione sistematica" di questi processi, potenziata dall'intervento dello Stato, soprattutto attraverso le politiche fiscali e il debito pubblico, "una delle leve più energiche dell'accumulazione originaria"[7].

Altre ancora sono le storie dei primi esempi di produzione capitalistica, nelle campagne e nelle prime manifatture del XVIII secolo. Ma a questo punto i diversi processi di formazione del proletariato e del capitale si sono ormai incrociati stabilmente, innescando il "circolo virtuoso" della riproduzione capitalistica. A questo punto è legittimo parlare di "leggi economiche" e impiegare la teoria del valore-lavoro sia per spiegare il funzionamento del sistema capitalistico, sia per azzardare alcune previsioni circa le tendenze del suo sviluppo.

 

3. La lettura engelsiana e gli esiti del marxismo successivo

Prima di affrontare quest'ultima questione, vale la pena di soffermarsi ancora sull'importanza metodologica che il capitolo sull'"accumulazione originaria" riveste. Come ho anticipato, il marxismo successivo non ha recepito la ricchezza della ricostruzione della genesi del capitalismo proposta da Marx in queste pagine, e soprattutto non ne ha colto il carattere profondamente innovativo, la "rivoluzione" che essa implica nell'idea stessa di storia. A pochi anni dalla morte di Marx, in occasione della prima edizione del terzo libro del Capitale, Engels rispolvera - e propone come "interpretazione autentica" del testo marxiano[8] - una storia dell'umanità evoluzionistica, un tracciato dallo "stato selvaggio" alla "civiltà" (per riprendere la terminologia derivata da L. H. Morgan impiegata da Engels in L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato)[9] interamente scandita dalla teoria del valore-lavoro.

 

"Noi tutti sappiamo che agli inizi della società i prodotti erano consumati dai produttori stessi e che questi produttori erano organizzati primitivamente in comunità aventi una struttura più o meno comunista: che lo scambio dell'eccedenza di questi prodotti con gli stranieri, dal quale trae origine la trasformazione dei prodotti in merci, è di data posteriore, avviene dapprima solo fra alcune comunità di stirpe diversa, e si afferma più tardi nell'interno della comunità contribuendo fortemente alla sua dissoluzione in gruppi di famiglie più o meno grandi"[10].

 

C'è dunque, secondo Engels, un "comunismo" primitivo, che lo scambio dissolve. Lo scambio progressivamente si diffonde, consolidandosi inizialmente come rapporto tra famiglie contadine e produttori artigiani:

 

"Il contadino del Medioevo conosceva dunque abbastanza esattamente il tempo di lavoro richiesto per la fabbricazione degli oggetti che egli acquistava con lo scambio. Il fabbro, il carpentiere del villaggio lavoravano sotto i suoi occhi: del pari il sarto e il calzolaio [...]. Sia il contadino che coloro da cui egli acquistava erano essi stessi lavoratori, gli articoli che essi scambiavano erano prodotti propri di ciascuno. Che cosa essi avevano speso nella fabbricazione dei prodotti? Lavoro e solamente lavoro [...]: come possono dunque scambiare questi loro prodotti con quelli degli altri produttori lavoratori se non in ragione del lavoro in essi speso? Il tempo di lavoro speso in questi prodotti non era solamente l'unica misura adatta per la determinazione quantitativa delle grandezze da scambiare: era assolutamente l'unica possibile"[11].

 

Siamo alla "produzione semplice di merci", vale a dire al modello smithiano (trasfigurato da Engels in realtà storica) entro cui soltanto ha pieno vigore la teoria del valore-lavoro. E se Smith si perde tra "lavoro contenuto" e "lavoro comandato" nel tentativo di estendere la teoria alle condizioni capitalistiche della produzione, Marx mette le cose a posto, svelando il trucco della differenza tra "valore del lavoro" e "valore della forza-lavoro" che consente l'appropriazione del plusvalore da parte del capitalista, ma soprattutto risolvendo il problema della "trasformazione dei valori in prezzi di produzione", chiave analitica della dimostrazione della validità della teoria del valore-lavoro[12]. Ma la società capitalistica è soggetta alle stesse leggi evolutive che l'hanno fatta sorgere e che ora permettono di intravederne la fine. La crescente socializzazione della produzione, da un lato, e, dall'altro, la separazione delle funzioni di direzione e di proprietà un tempo riunite nella figura del capitalista fanno sì che prenda forma un "lavoratore collettivo" forte e nuovamente indipendente rispetto a una proprietà sempre più assenteista (i "rentiers, [...] gente sazia della continua tensione degli affari, che non desidera dunque che divertirsi od occupare dei posti poco faticosi di direttori o membri del consiglio d'amministrazione di società"[13]), ormai inutile dal punto di vista produttivo. Non occorre più che una scrollata per concludere l'umana vicenda e ritrovare alla fine del percorso, in una forma ricca e dispiegata, il comunismo povero e semplice delle origini.

Questa la storia economica dell'umanità tracciata da Engels: del tutto analoga a quella di Adam Smith, com'è facile osservare. Le differenze che intercorrono tra le due non comportano alcuna "rottura epistemologica", ma soltanto l'aggiunta di un passato (il comunismo primitivo) e di un futuro (il comunismo "evoluto"), oltretutto nella forma hegeliana in cui il/la fine (nel duplice significato di termine e scopo) rispecchia, in forma dispiegata, l'origine, chiudendo il cerchio della storia. Ma tra il mitologico "stato selvaggio" e la futura "resurrezione, in una forma più elevata, della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes"[14], l'intero arco della "civiltà" - ossia la storia in senso proprio, compresa tra preistoria e fine della storia - si svolge esattamente secondo lo schema tracciato da Smith. Divisione del lavoro e scambio sono gli elementi dinamici che determinano lo sviluppo; del resto, in L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato Engels scrive:

 

"La civiltà è dunque [...] lo stadio di sviluppo della società, nel quale la divisione del lavoro, lo scambio tra individui da essa generato e la produzione che li abbraccia entrambi, giungono al completo dispiegamento"[15].

 

Gli elementi caratteristici dell'impostazione di Engels saranno il cuore del marxismo "ortodosso" successivo: la storia teleologica, vera "grande narrazione" dell'umanità in progresso; il ruolo strategico assegnato allo scambio nella definizione e nella stessa genesi del capitalismo (che finirà col mettere del tutto in ombra la nozione marxiana di "rapporti di produzione"); la vigenza universale della legge del valore; il progressivo impallidire del concetto di "modo di produzione", diluito nella generica nozione di "civiltà". Non rimane traccia di quella straordinaria genesi del capitalismo tratteggiata da Marx nelle pagine sull'"accumulazione originaria", in cui si affaccia una storia così diversa dai rassicuranti modelli ottocenteschi, dal positivismo come dallo hegelismo: una storia cattiva, che non lavora per il bene dell'umanità ed è irriducibile a "leggi", ma è interpretabile sulla base degli interessi e delle pratiche di potere che vi si muovono.

[1] Il termine è ripreso da Adam Smith: "Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale. Ma l'accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un'accumulazione 'originaria' ('previous accumulation' in A. Smith) precedente l'accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico" (ivi, p. 879).

[2] Ivi, pp. 879-880.

[3] Ivi, p. 880.

[4] Ivi, p. 883.

[5] Ivi, pp. 906-907.

[6] Cfr. ivi, p. 921 e ss.

[7] Ivi, p. 927. A quanto pare, l'idea oggi molto diffusa secondo cui queste forme dell'intervento economico dello Stato sarebbero caratteristiche del "capitalismo maturo", e assenti nel capitalismo delle origini, andrebbe quanto meno rivista.

[8] Il testo a cui mi riferisco, le Considerazioni supplementari (che da innumerevoli edizioni vengono premesse al terzo libro del Capitale insieme alla Prefazione scritta da Engels nel 1894) fu scritto da Engels come commento della prima recezione del Capitale di Marx.

[9] Cfr. F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma 1971, pp. 51-56.

[10] F. Engels, Considerazioni supplementari, in K. Marx, Il Capitale, cit., vol. III, pp. 35-36.

[11] Ivi, p. 39.

[12] Il problema della "trasformazione dei valori in prezzi di produzione" diventerà una vera mania del marxismo novecentesco, per cui è utile farne almeno un accenno. Come si ricorderà, Smith ma anche Ricardo finiscono con l'abbandonare la teoria del valore-lavoro per una calcolo basato sui costi di produzione, che non sembrano perfettamente riducibili ai valori. Marx affronta la questione nel terzo libro del Capitale in cui la trattazione si svolge, a differenza di quanto avviene nei primi due libri, in termini di prezzi di produzione anziché in termini di valori. Egli ritiene i prezzi di produzione come quantitativamente diversi dai valori, ma aventi però lo stesso contenuto qualitativo: il lavoro astratto socialmente necessario alla produzione dei beni. Più precisamente, ogni singolo valore è normalmente divergente rispetto al singolo prezzo di produzione corrispondente, ma l'insieme dei valori prodotti e dei prezzi di produzione costituisce un'identità, ed è possibile impostare un calcolo per passare dall'espressione in valore a quella in prezzi di produzione e viceversa. L'impostazione analitica di tale calcolo presenta alcune incoerenze, che, oltre a stimolare la ricerca di soluzioni, hanno suscitato un dibattito pluridecennale tra marxisti e non marxisti, in cui la corretta soluzione della  "trasformazione dei valori in prezzi di produzione" è assurta a banco di prova fondamentale della validità dell'intera teoria marxiana. Per una ricostruzione e per un giudizio su tale dibattito, rinviamo al terzo capitolo di E. De Marchi, G. La Grassa, M. Turchetto, Per una teoria della società capitalistica, cit.; si veda inoltre la trattazione, sintetica ma molto esauriente e chiara, contenuta nel saggio di S. Vicarelli in AA. VV., Valori e prezzi nella teoria di Marx, Einaudi, Torino, 1977.

[13] F. Engels, Considerazioni..., cit., p. 51.

[14] F. Engels, L'origine..., cit., p. 208.

[15] Ivi, p. 204.