Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

 

La crisi della scuola classica.

Nuovi paradigmi a confronto: la scuola storica tedesca, la scuola neoclassica, il marxismo.

 

Dal consolidamento alla crisi.

La prima metà dell XIX secolo vede consolidarsi la scienza economica intorno a un nucleo categoriale ben riconoscibile, riconducibile ai concetti chiave dei Principi ricardiani. Tali concetti vengono discussi, perfezionati, sistematizzati. La trattazione degli argomenti economici conosce un significativo cambiamento di stile: dalla commistione di teoria e descrizione storica che caratterizza ancora l'opera di Smith si passa alla modellistica astratta e deduttiva. Già l'approccio di Ricardo risulta fortemente deduttivo, con poco spazio concesso alla descrizione, tuttavia l'autore dei Principi non affronta esplicitamente problemi metodologici, e non procede a forti formalizzazioni, anche se senza dubbio ne pone alcune importanti premesse, che saranno sviluppate soprattutto da Nassau Senior nell'opera Lineamenti di scienza dell'economia politica pubblicata nel 1836.

Secondo Senior, la scienza economica è in primo luogo positiva, e non "normativa": si occupa di ciò che è, non di ciò che deve essere. In secondo luogo, è deduttiva, e non "descrittiva": deve dedurre il proprio apparato analitico da pochissime proposizioni di natura generale, abbastanza "evidenti" da non aver bisogno di dimostrazione. Proposizioni che rivestono tale carattere sono, secondo Senior, il principio di razionalità, secondo cui gli individui sono esseri razionali e calcolatori che cercano di procurarsi la massima ricchezza con il minimo sacrificio; la dottrina malthusiana della popolazione e il principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura, a cui va aggiunto un principio "storico" (nel senso che non rappresenta l'espressione di una "legge di natura" come i precedenti) dei rendimenti crescenti nell'industria. Argomentando da questi principi fondamentali, attenendosi a un'accurata terminologia e seguendo le regole della logica, l'economista svilupperà conclusioni che avranno lo stesso carattere di certezza e di universalità delle premesse. Più precisamente, secondo Senior, è possibile pervenire a leggi universali relativamente alla produzione, poiché i principi che la governano hanno lo statuto della legalità naturalistica; mentre i principi che governano la distribuzione sono invece legati agli usi e alle istituzioni che caratterizzano un particolare sistema economico.

Con buona pace di Senior, i principi "evidenti" e la scienza "positiva" che ne viene dedotta hanno un ben preciso corrispettivo sul piano normativo, ossia sul piano delle indicazioni politiche rivolte allo Stato. Tale corrispettivo è precisamente il liberismo, cioè l'indicazione di non interferire con le leggi "naturali" dell'economia, di lasciar fare agli agenti economici sul piano interno (niente Poor Law, nessun controllo sul lavoro e sui salari) come su quello esterno (niente Corn Law, nessuna barriera tariffaria o doganale, nessun ostacolo al libero commercio internazionale).

Intorno alla metà del secolo nel campo della scienza economica cominciano a spirare venti di crisi. L'attività di affinamento e sistemazione cede il campo alla messa in discussione degli assunti consolidati: le insoddisfazioni per le contraddizioni ancora presenti nella teoria, per i concetti discutibili, per le previsioni smentite assumono la forma della critica radicale. O meglio, di più critiche radicali, diversamente impostate e argomentate, le cui conseguenze sono impostazioni radicalmente diverse dell'impianto stesso della scienza economica. Marx, ad esempio, sostiene che la teoria del valore formulata dai classici non può funzionare a causa di un ostacolo ideologico: si vuole usarla per descrivere una società armonica e giusta, ma un suo sviluppo coerente mostra in realtà come essa sia la base di un ingiusto sfruttamento e dunque di una società attraversata da un insanabile conflitto di interessi tra le classi. Altri autori - che formeranno la cosiddetta scuola storica - sostengono invece che la teoria del valore non funziona per la natura stessa della scienza economica, la quale, trattando un oggetto peculiare come il comportamento umano, largamente imprevedibile, non può essere una scienza esatta. Al contrario, gli autori della nascente scuola neoclassica o marginalista affermano che la scienza economica può aspirare a un'esattezza paragonabile a quella della fisica teorica, ma che per ottenere tale risultato è necessario sbarazzarsi della teoria del valore-lavoro formulata dai classici e sostituirla con la teoria del valore-utilità.

Vale la pena di considerare un po' più da vicino queste nuove proposte metodologiche.

 

La scuola storica tedesca: una critica al liberismo.

La scuola storica rappresenta un'importante corrente di pensiero che si forma in Germania nella seconda metà del XIX secolo, in un contesto culturale che va ben al di là della sola scienza economica: esiste una scuola storica del diritto, cui i giuristi attribuiscono una grande importanza nella formazione del moderno spirito giuridico, ed esiste uno storicismo filosofico, destinato ad esercitare una vasta influenza sul pensiero del secolo successivo. La scuola storica dell'economia è meno nota: poiché tra le diverse posizioni che animano la crisi della teoria classica prevarrà - almeno a livello accademico - quella neoclassica, gli storici del pensiero economico tendono a considerare la scuola storica un episodio abbastanza marginale, una sorta di deviazione dalla "retta via". In realtà alcune posizioni espresse da questo filone di pensiero sono di estremo interesse.

Iniziatore o quantomeno precursore della scuola storica tedesca è considerato Friederich List, di cui analizzeremo un brano tratto dalla sua opera principale, Il sistema nazionale di economia politica, del 1841. L'opera sviluppa un'originale critica alle teorie liberiste inglesi dal punto di vista dei paesi che iniziano a percorrere la via dell'industrializzazione. Secondo List, il libero scambio nel commercio internazionale potrebbe essere praticato soltanto se tutte le nazioni si trovassero al medesimo livello di sviluppo; se invece vi sono paesi più intensamente industrializzati di altri, il liberismo diventa uno strumento utile ai paesi più avanzati per dominare quelli più arretrati. Dunque il liberismo non è una verità universale, come pertende la scuola classica: è un principio che va calato nella storia, e valutato in base alle condizioni specifiche, concrete, storicamente determinate di ciascun paese. E' un principio che oggi - nel momento in cui List elabora la sua teoria - giova certamente all'Inghilterra, che per prima è arrivata allo "stadio maturo" dello sviluppo economico, ma non giova a paesi che non sono ancora pienamente industrializzati e che, praticandolo, si troverebbero bloccati allo "stadio agricolo" e impossibilitati a sviluppare un adeguato settore manifatturiero a causa della concorrenza delle merci inglesi[1]. Il liberismo, in altre parole, è la dottrina del più forte, letale per i più deboli.

List critica anche il liberismo praticato sul piano interno, ossia il principio del laissez faire, l'astensione dello Stato da ogni interferenza in campo economico: una scelta che può risultare dannosa, rallentare lo sviluppo o renderlo squilibrato, come dimostra proprio l'esperienza inglese in cui l'industrializzazione si è accompagnata alla rovina delle campagne. Contro l'individualismo dell'economia classica, List pone al centro l'idea di nazione, definita "intermediario necessario fra l'individuo e il genere umano".

Gli economisti della scuola storica successivi porteranno a conseguenze metodologiche estreme l'indicazione di List relativa alla necessità di calare nella storia le pretese leggi universali dell'economia classica. Sia i rappresentanti della cosiddetta "vecchia scuola storica" - Roscher, Hildebrbrand, Knies - sia quelli della "giovane scuola storica" fondata da Schmoller - Brentano, Büchner, Knapp - contrappongono all'impostazione astratto-deduttivista dei classici inglesi un'impostazione empirica e induttivista. Compito dell'analisi economica non è formulare leggi universali astratte, ma conoscere la concreta specificità storica di ciascun contesto nazionale. Più precisamente, gli autori non negano la validità delle "leggi" enunciate dagli economisti classici, ma propongono di completare o integrare l'analisi mediante la rilevazione sistematica dei fattori etici, culturali, di costume e delle modificazioni che essi hanno storicamente subito. I fattori storici e culturali possono infatti modificare in modo significativo i comportamenti economici dedotti astrattamente: così, per fare un esempio, l'aumento dell'offerta di una data merce potrebbe non comportare la diminuzione del suo prezzo - prevedibile in base alle "leggi astratte" della scienza economica - se la domanda rimane alta per motivi "extraeconomici" quali la moda, il costume, ecc. Per fare un altro esempio, la particolarità del feudalesimo prussiano, in cui le tenute venivano gestite direttamente dal signore senza la mediazione dell'affittuario, rende in larga misura inapplicabile nel contesto tedesco la teoria ricardiana della rendita: è quanto sostiene Knapp nei suoi lavori sulla storia dell'agricoltura tedesca. Ciò che la scuola storica richiede all'indagine economica, dunque, è una maggiore specificazione, una maggiore aderenza alla "realtà" intesa come connessione e interdipendenza di eventi che rende ciascun evento - dunque anche l'evento economico - "storico", vale a dire irripetibile, specifico, unico.

Secondo gli autori della scuola storica il carattere storico (cioè il dipendere da una successione temporale irripetibile di infiniti eventi) e sociale (cioè il dipendere da una rete infinita di interdipendenze) dei fenomeni economici rende impossibile configurare l'economia come "scienza esatta". Lo studio dei fenomeni economici, tuttavia, deve cercare di avvicinarsi il più possibile, valendosi di modalità descrittive, alla concreta specificità dei fenomeni, anche se questa - correttamente pensata - è un'unicità irripetibile e dunque irriproducibile, dunque un'ideale regolativo che non si può raggiungere ma a cui si deve tendere.

 

La scuola neoclassica: l'ideale di una scienza economica "pura".

Sulla questione dell'"esattezza" scoppia, negli ultimi anni del XIX secolo, un'accesa polemica tra i rappresentanti della scuola storica tedesca e i fondatori di un nuovo indirizzo, noto come neoclassico o marginalista. Affronteremo in un capitolo successivo il merito della teoria marginalista, ma anticipiamo qui alcune considerazioni sul metodo, per poterle confrontare con le indicazioni della scuola storica.

I principali protagonisti della polemica - che si trascinerà piuttosto a lungo e passerà alla storia con il nome di Methodenstreit, ossia "disputa sul metodo"[2] - sono Gustav Schmoller, esponente come abbiamo detto della "giovane scuola storica" tedesca, e Carl Menger, economista austriaco cui si deve la formulazione della nozione di "utilità marginale" nell'opera del 1871 intitolata Principi di economia pura. L'altra opera importante di questo autore, Ricerche sul metodo delle scienze sociali e dell'economia in particolare, del 1883, è interamente dedicata alla critica dell'impostazione della scuola storica.

La posizione di Menger è diametralmente opposta a quella di Schmoller. Schmoller sosteneva l'inutilità pratica di una ricerca economica astratta, e propugnava l'indagine descrittiva di fatti, istituzioni, strutture storiche come componente essenziale della ricerca economica. Menger ritiene invece il "programma scientifico" dei classici metodologicamente corretto: compito della scienza economica non è la riproduzione di un singolo fenomeno economico nella sua pienezza empirica, ma - come appunto ritenevano i classici - l'elaborazione di leggi astratte e universali. Lo sforzo di generalizzazione va anzi spinto oltre, rispetto alle elaborazioni della scuola classica. Così, ad esempio, la "legge generale" della domanda e dell'offerta, correttamente individuata dai classici, può essere ulteriormente "ridotta" alla sommatoria delle utilità marginali espresse dagli individui economici, con il vantaggio di unificare teoria del valore e teoria dei prezzi.

Menger è evidentemente influenzato dall'importante "rivoluzione scientifica" che è avvenuta tra il 1860 e il 1880 e che ha portato all'unificazione di chimica e fisica sulla base delle nuove teorie atomiche e molecolari[3]. Smentendo clamorosamente l'affermazione di Hegel secondo cui "gli elementi chimici non possono ricevere nessun ordine, al contrario sono l'uno in confronto degli altri eterogenei", le nuove teorie offrono alla chimica la più rigorosa delle organizzazioni: l'ordine numerico dei pesi atomici, che riconduce le qualità degli elementi (affinità, valenze, caratteristiche qualitative) alle quantità di particelle subatomiche. Questa straordinaria "riduzione" affascina Menger: egli vagheggia una sistemazione "chimico-fisica" della scienza economica, che ritiene capace di una spiegazione "esatta, cioè atomistica"[4] dei fenomeni sociali. Per Menger "esattezza" significa appunto spiegazione atomistica: le scienze esatte spiegano i fenomeni naturali "ricercando gli elementi più semplici della realtà", e determinando le "relazioni tipiche" tra tali elementi, che rappresentano le leggi secondo cui dagli elementi semplici si sviluppano fenomeni complessi[5]. Lo stesso metodo può essere applicato alla spiegazione dei fenomeni sociali, in cui gli "elementi più semplici" - il corrispettivo degli atomi della chimica e della fisica - sono gli individui[6]. In questo tipo di indagine le scienze sociali sarebbero addirittura avvantaggiate rispetto alle scienze naturali:

 

Gli elementi ultimi cui deve rifarsi l'interpretazione teorica esatta dei fenomeni naturali sono "atomi" e "forze". Non possiamo rappresentarsi "atomi", e le forze naturali possiamo rappresentarle soltanto per mezzo di immagini, e in realtà le comprendiamo soltanto in quanto cause a noi ignote di movimenti reali. Da qui scaturiscono difficoltà in ultima analisi proprio straordinarie per l'interpretazione esatta dei fenomeni naturali. Diversamente stanno le cose nelle scienze sociali esatte. Qui sono gli individui umani e le loro attività a costituire gli elementi ultimi della nostra analisi, di natura empirica, e perciò le scienze sociali esatte hanno un grosso vantaggio rispetto alle scienze naturali esatte[7].

 

Menger è consapevole del fatto che le spiegazioni generali e astratte che si possono ricavare con il metodo "atomistico" non danno conto della complessità dei fenomeni sociali e in particolare della molteplicità dei fattori extraeconomici che interferiscono con i comportamenti economici. Ciò tuttavia non inficia il compito di generalizzazione che la scienza economica si pone: infatti è normale, in ogni pratica scientifica, prescindere da fenomeni perturbatori. Questi ultimi, semmai, potranno essere presi in considerazione, eventualmente con un approccio empirico, dalle "scienze pratiche", ossia dalle discipline che si occupano delle applicazioni delle scienza teoriche. Ad esempio, la politica economica dovrà necessariamente tener conto delle particolari condizioni storiche, politiche, sociali del contesto in cui si esercita:

 

Un politico economico che non prestasse alcuna attenzione alle condizioni in base alle quali certi scopi politico-economici possano essere raggiunti [...] sarebbe simile a un tecnico che facesse passare certe operazioni meccaniche per razionali senza considerare il materiale utilizzato, a un terapeuta che facesse lo stesso con certi metodi curativi senza considerare la particolarità della singola malattia[8]

 

Ma accanto alla politica economica, necessariamente "pratica", può legittimamente esistere una scienza economica "pura", cioè puramente teorica, così come legittimamente esite una fisica teorica accanto alle applicazioni dell'ingegneria e una chimica teorica accanto alle applicazioni mediche e farmacologiche.

 

L'impostazione di Marx: il concetto di "modo di produzione".

Negli stessi anni anche Marx partecipa, se non alla polemica diretta che contrappone la scuola storica alla scuola marginalista, al vasto processo di ridefinizione della scienza economica. Anche in questo caso, riservando al merito della teoria marxiana un capitolo successivo, esamineremo alcune questioni di metodo, utilizzando un testo particolarmente significativo: l'Introduzione a Per la critica dell'economia politica del 1857.

Da un lato, Marx offre una impostazione nuova alla questione della specificità storica sollevata dagli economisti della scuola storica; dall'altro, affronta in modo molto originale la questione degli aspetti extraeconomici che devono essere presi in considerazione per dar conto dei fenomeni sociali nella loro interezza. Se il punto di vista economico non esaurisce lo studio della società, ciò significa che occorre indagare le relazioni che intercorrono tra gli aspetti economici, da un lato, e, dall'altro, gli aspetti politici, giuridici, ideologici. Non basta evocarli, segnalarli, sapere che ci sono: si pone un preciso compito teorico in ordine alla gerarchia e ai reciproci rapporti di determinazione di questi diversi livelli della vita sociale. E' un problema che Marx indica, nella sua opera, con varie espressioni - non sempre chiare - parlando di "struttura e sovrastruttura", di "connessione organica della società borghese", affermando che "in tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e della influenza di tutte le altre e i cui rapporti decidono perciò del rango e dell'influenza di tutti gli altri. E' una luce generale che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli nella loro particolarità. E' un'atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge".

Poiché si parla comunemente, a proposito di Marx, di "determinazione della sovrastruttura da parte della struttura economica" o di "interpretazione economica della storia"[9], non è inutile specificare che egli assegna questo ruolo preminente di "influenza" non ai rapporti economici in generale, ma ai rapporti sociali di produzione. La nozione di rapporti sociali di produzione è di importanza cruciale nell'elaborazione teorica di Marx, ed è quindi utile chiarirla fin d'ora.

Il punto di partenza è una critica molto particolare alla scuola classica: secondo Marx, l'oggetto "dichiarato" dagli economisti classici non corrisponde a quello effettivamente indagato. Economisti come Smith e soprattutto Ricardo, di cui si dice che abbiano messo al centro della propria analisi - a differenza dei mercantilisti - la produzione, l'hanno in realtà trattata in termini tanto semplicistici da non risultare scientifici: come un processo naturale, un processo che si svolge tra l'uomo e la natura in cui l'uomo modifica la natura per adattarla ai propri bisogni, mentre si tratta di un processo sociale, un processo in cui gli uomini entrano in determinate relazioni costitutive della società. Le relazioni sociali che si stabiliscono nella produzione - i rapporti di produzione, appunto - sono i rapporti sociali più importanti, quelli che caratterizzano un sistema sociale. In questo senso, come leggiamo nell'Introduzione, "una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché determinati rapporti tra questi diversi momenti". Marx propone perciò di classificare i diversi sistemi sociali in base al tipo di rapporti di produzione in essi prevalenti, e denomina i sistemi sociali così individuati modi di produzione.

Cogliamo così un'analogia e al tempo stesso un'importante differenza tra l'impostazione di Marx e quella della scuola storica. L'analogia riguarda la critica alla scuola classica: la pretesa universalità dei principi enunciati dagli economisti della scuola classica è infondata: i fenomeni economici non appartengono al dominio dei processi naturali, ma a quello dei processi storico-sociali. Perciò non ha senso parlare di "produzione in generale", perché abbiamo sempre a che fare con una produzione storicamente determinata, che avviene cioè "entro e mediante una determinata forma di società". Dunque la generalizzazione - che è comunque un momento necessario nell'approccio scientifico ai problemi - deve lasciare spazio a "differenze specifiche" significative. L'argomentazione è davvero molto prossima a quella proposta dagli autori della scuola storica, ma le differenze che a costoro stanno a cuore sono diverse da quelle che interessano a Marx. La scuola storica segnala differenze tra popoli: ogni popolo ha una sua particolare storia e cultura, i "tedeschi" sono diversi dagli "inglesi" ed entrambi sono diversi dai "francesi". Marx distingue invece diversi sistemi sociali o modi di produzione: il "modo di produzione feudale" è diverso dal "modo di produzione antico" basato sulla schiavitù, ed entrambi questi sistemi sono diversi dal "modo di produzione capitalistico".

Questi diversi modi di produzione non sono riducibili a stadi di sviluppo, diversi solo per grado e capacità produttiva, poiché si basano su organizzazioni sociali qualitativamente differenti. In tutte le società finora conosciute c'è qualcuno che lavora, ma un servo della gleba è diverso da uno schiavo non semplicemente per come lavora la terra, ma per il tipo di rapporto sociale che lo lega agli altri membri della società, e ancora diverso è un moderno lavoratore salariato. In tutte le società finora conosciute c'è qualcuno che non lavora e vive del lavoro altrui, ma in certe società questo privilegio si basa su un potere militare o religioso, mentre nella società capitalistica si basa su un potere propriamente economico.

C'è un'altra differenza molto importante tra l'impostazione di Marx e quella della scuola storica. Mentre per la scuola storica la specificità storica dei popoli si coglie mediante la descrizione, per Marx è possibile ricostruire specifiche leggi di funzionamento per ciascun tipo di modo di produzione. In altre parole, l'esigenza di "calare nella storia" le categorie astratte dell'analisi economica non si soddisfa, secondo Marx, aggiungendo un'indagine descrittiva alla teoria, ma elaborando una teoria dotate di categorie storico-specifiche. La validità di una simile teoria non sarà universale, ma limitata al "modo di produzione" che intendiamo indagare.

Il procedimento concettuale con cui si costruiscono categorie storico-specifiche (categorie, cioè strumenti concettuali finalizzati alla spiegazione causale e non semplici descrizioni) viene discusso da Marx nel terzo paragrafo dell'Introduzione, dedicato al "metodo dell'economia politica". Marx descrive tale procedimento come un doppio percorso: in primo luogo, un procedimento analitico, uno smontaggio delle principali nozioni - "popolazione", "ricchezza", ecc. - in "momenti semplici"; in secondo luogo, un rimontaggio di tali momenti semplici capace di dar conto delle relazioni significative, costitutive del fenomeno complesso che vogliamo spiegare. Dobbiamo guardarci dal confondere il procedimento logico con cui si procede a tale rimontaggio - secondo una modalità che va dal semplice al complesso - con il processo storico che ha portato alla formazione della realtà economica che si tratta di indagare (è l'errore in cui incorre Hegel). Viceversa, non dobbiamo adottare la sequenza dello sviluppo storico come ordine categoriale: ad esempio, se il compito conoscitivo che ci poniamo è quello di spiegare il funzionamento del sistema economico capitalistico, non ha senso premettere la trattazione dell'agricoltura e della rendita fondiaria a quella della produzione industriale e del profitto capitalistico (questo, come abbiamo visto a suo tempo, è l'ordine espositivo dei Principi di Ricardo, a lungo imitato da tutta la manualistica economica) semplicemente perché lo sviluppo dell'agricoltura precede storicamente quello dell'industria. Nel modo di produzione capitalistico, infatti, è la produzione di capitale che domina e "decide del rango e dell'influenza di tutte le altre", dunque "esso deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo, e deve essere trattato prima della rendita fondiaria".

L'impostazione metodologica proposta da Marx ha uno straordinario effetto critico proprio sul piano dell'interpretazione della storia. Essa mette infatti in discussione l'idea della storia come sviluppo che procede dal semplice al complesso. Il passaggio dal semplice al complesso, infatti, è secondo Marx caratteristico del procedimento concettuale, e viene assai spesso attribuito allo svolgimento storico del tutto arbitrariamente. In particolare, Marx critica l'idea hegeliana secondo cui le categorie "più semplici" sarebbero anche originarie: origine che conterrebbe - come una cellula germinale contiene il patrimonio genetico - la potenzialità degli sviluppi futuri.

Un serio lavoro di ricostruzione storica - che certo è cosa ben diversa da una "filosofia della storia" - mostra in realtà che la coincidenza di "semplice" e "primitivo" è del tutto eventuale. Può in effetti verificarsi che una relazione più semplice compaia storicamente prima di una relazione più complessa. Ad esempio, "il denaro può esistere ed è storicamente esistito prima che esistessero il capitale, le banche, il lavoro salariato, ecc. [...] In questo senso, il cammino del pensiero astratto che sale dal semplice al complesso, corrisponderebbe al processo storico reale", anche se - aggiunge Marx - un'affermazione del genere andrebbe comunque accettata con beneficio di inventario, dal momento che sono storicamente esistite società molto sviluppate in cui non compare denaro alcuno. Ma, al contrario, si danno categorie "semplici" che hanno esistenza storica effettiva soltanto a un alto livello dello sviluppo storico: è il caso del lavoro astratto, categoria cui Adam Smith perviene mediante "l'astratta generalizzazione dell'attività produttrice di ricchezza", ma che esprime anche una situazione storica "molto sviluppata": "l'indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente". Come si vede, ordine logico e ordine storico in questo caso non coincidono, sono addirittura rovesciati. Il materialismo storico di Marx - a dispetto delle interpretazioni correnti - è dunque assai lontano da una "filosofia della storia" teleologica.

L'elaborazione teorica di Marx - di cui entreremo nel merito nel prossimo capitolo - è dunque sorretta da una riflessione metodologica assai complessa, lontana dal positivismo e dallo storicismo tipici dell''800 (dalla scuola classica dell'economia come da Hegel) e fortemente originale rispetto alle posizioni dei contemporanei. Per Marx una categoria specifica - vale a dire una categoria adeguata a un interesse conoscitivo che mira alla complessità della società contemporanea - è il risultato una complessa correlazione di categorie astratte, in cui possiamo distinguere almeno tre ordini di relazioni: un ordine logico, che riguarda il corretto procedimento di formazione delle categorie stesse; un ordine storico, che riguarda la ricostruzione della genesi dei fenomeni sociali; e un ordine gerarchico, che riguarda la collocazione dei fenomeni e dei rapporti indagati entro la rete complessiva della "totalità" sociale.

 

La legislazione sociale tedesca.

Il teatro del processo di ridefinizione della scienza economica, nella seconda metà del XIX secolo, è soprattutto la Germania. La politica tedesca fu in effetti ampiamente influenzata dalla scuola storica, da Marx, da altri autori di ispirazione socialista e dal movimento operaio che si ispirava alle posizioni socialiste.

List fu un forte sostenitore dell'unione doganale tedesca e dello sviluppo ferroviario. Lo Zollverein - l'accordo commerciale tra i principati tedeschi varato nel 1834 e rimasto in vigore fino all'unificazione politica della Germania - costituì un mercato comune abbastanza ampio da costituire uno sbocco adeguato per la nascente industria tedesca, che sviluppò un'importante produzione metallurgica specializzata nel nuovo settore dell'acciaio, favorita dalla costruzione di ferrovie (dai 6 Km del 1831 si passa rapidamente ai 5500 del 1847, il doppio della rete francese alla stessa data) e fortemente protetta - secondo i suggerimenti di List - da dazi e politiche tariffarie soprattutto contro Francia e Inghilterra. Nella seconda metà del secolo l'unione doganale diventa unione politica: prima Confederazione della Germania del Nord, poi Reich federale. Alla potente industria metallurgica si affianca, in questo periodo, un'importante industria chimica ed elettrica.

L'industrializzazione della Germania fa emergere, più che un problema di pauperismo come era avvenuto in Inghilterra (l'agricoltura tedesca non subisce le trasformazioni violente e destabilizzanti che avevano accompagnato la rivoluzione industriale inglese), una questione operaia in senso proprio. In Germania prende forma un movimento operaio forte e consapevole, ispirato sia al cattolicesimo sociale sia al nuovo ideale socialista che si va radicando in Europa e che ha trovato nella teoria di Marx un potente strumento di analisi delle condizioni di fabbrica, dei problemi occupazionali, dello sfruttamento che si serve del progresso tecnologico. Ma già prima di Marx la letteratura economica e filosofica tedesca mostra una forte consapevolezza dei problemi legati all'industrializzazione: vale la pena di citare almeno Lorenz von Stein che pubblicò già nel 1842 un'analisi che riconduceva sociologicamente il socialismo alla formazione di un proletariato industriale, auspicando tuttavia una soluzione riformista di "democrazia sociale" anziché un'ipotesi rivoluzionaria. Per la Germania, in particolare, egli pensava a una "legittimazione sociologica" della monarchia costituzionale dell'epoca, un "regno della riforma sociale" capace di scavalcare i conflitti di classe[10]: l'antagonismo tra capitale e lavoro avrebbe potuto scomparire, secondo Stein, nella misura in cui da un lato il capitale, per il timore di una rivoluzione, avesse accettato consapevolmente una politica di riforma sociale; dall'altro il proletariato, grazie alle politiche di protezione e promozione sociale, avesse rinunciato alla prospettiva rivoluzionaria.

La stessa scuola storica animò del resto una Verein für Socialpolitik (Associazione per la politica sociale), fondata nel 1872, volta a promuovere una più equa divisione dei beni e quindi un superamento del conflitto sociale. Per la corrente più conservatrice, rappresentata soprattutto da Gustav Schmoller, si doveva contare soprattutto sull'intervento sociale dello Stato; per la corrente più liberale, rappresentata da Lujo Brentano, si sarebbero invece dovute promuovere associazioni di autotutela dei lavoratori, sull'esempio delle Friendly Societies inglesi. Altri autori, come ad esempio Adolph Wagner, sostenevano invece l'idea di un vero e proprio "socialismo di Stato".

Nella Germania della seconda metà del XIX secolo il movimento socialista è di gran lunga più forte che nel resto dell'Europa. Nel 1878, al congresso di Gotha, si fondono nel Partito Socialdemocratico due partiti di ispirazione socialista nati negli anni '60: L'Associazione Generale dei Lavoratori Tedeschi (fondata da Lassalle nel 1864, questa associazione rivendicava soprattutto il suffragio universale e la legislazione sociale) e il Partito Operaio Socialdemocratico (fondato da Bebel e Liebknecht nel 1869, di ispirazione rivoluzionaria). Alla prima prova elettorale, il nuovo Partito Socialdemocratico raccoglie mezzo milione di voti e dodici seggi.

Questo forte movimento socialista viene fronteggiato da un uomo fortissimo: il "cancelliere di ferro" Otto von Bismarck. Dopo un primo tentativo di reprimere politicamente il movimento (soprattutto attraverso una legislazione di emergenza emanata col pretesto del terrorismo), la risposta di Bismarck è un vasto programma di riforma sociale che pone al centro la questione operaia. Bismarck fu influenzato soprattutto da Hermann Wagener, uno dei suoi più stretti consiglieri, e da Theodor Lohmann, per molti anni principale esperto di politica sociale della burocrazia prussiana, entrambi largamente influenzati dalle idee di Stein. Il risultato pratico di questo orientamento fu un'avanzatissima legislazione sociale a tutela dei lavoratori che comprendeva una legge sull'assistenza sanitaria (emanata nel 1883), finanziata per due terzi da contributi degli operai e per un terzo da versamenti dei datori di lavoro; una legge sugli incidenti sul lavoro (1884) che rendeva i datori di lavoro responsabili della sicurezza in fabbrica e imponeva l'obbligo assicurativo per gruppi abbastanza ampi di lavoratori; una legge sull'invalidità e vecchiaia (1889) che istituiva una cassa, alimentata per metà da contributi padronali e per metà da contributi dei lavoratori, che erogava sussidi in caso di invalidità e una pensione a partire dai sessantacinque anni di età. Si tratta del primo sistema di sicurezza sociale europeo, rivolto specificamente alla classe lavoratrice e fondato sulla convinzione che la questione del lavoro rappresenti una questione di ordine pubblico.

L'intenzione di Bismarck era quella di legare i lavoratori allo Stato, per allontanarli dal movimento socialista. Nel 1881, presentando al Kaiser Guglielmo I un abbozzo delle sue proposte in tema di sicurezza sociale, egli così si esprimeva: "La cura dei mali sociali non deve essere ricercata esclusivamente nella repressione degli eccessi dei socialdemocratici, ma questa deve essere accompagnata dal concreto avanzamento del benessere della classe lavoratrice"[11]. La lezione viene ampiamente recepita dai vertici dello Stato tedesco. Il nuovo Kaiser Guglielmo II, salito al trono nel 1988 e antagonista di Bismarck, prosegue le riforme sociali avviate e così si esprime in un indirizzo del 1890: "è dovere dello Stato regolamentare i tempi, la durata e la natura del lavoro, in modo che sia confacente al mantenimento della salute, dei precetti della morale, ai bisogni economici dei lavoratori e al loro diritto all'uguaglianza di fronte alla legge"[12]. Come si vede, la questione del lavoro è considerata in Germania questione eminentemente pubblica già negli ultimi decenni del XIX secolo: cosa notevole, se si pensa che ancora negli anni del New Deal nei paesi anglosassoni le Corti Supreme continuano a ribadire la natura privatistica dei contratti di lavoro e a condannare su questa base i sindacati per "turbativa del commercio".

L'unico altro paese europeo che, nel periodo considerato, imbocca questa strada è la Russia zarista, dove pure è attivo un movimento socialista molto forte. Nel 1886 viene emanata un'importante legge sulla sicurezza sociale in cui si dichiara che "l'assunzione di operai non è soltanto un contratto civile, simile a qualsiasi altro contratto privato, ma una questione di pubblico interesse intimamente connessa all'ordine pubblico e alla pace sociale"[13]. Gli altri paesi europei introdurranno sistemi di assicurazione sociale soltanto dopo la prima guerra mondiale (un tentativo di introdurre l'assicurazione pensionistica in Francia, nel 1910, fallì completamente per l'opposizione tanto dei datori di lavoro che dei lavoratori).


 
[1] Per la verità, il raggiungimento dello "stadio maturo" dello sviluppo economico, vale a dire "lo stadio agricolo-industriale-commerciale" non è, secondo List, un destino riservato a tutti i popoli, ma soltanto ai paesi situati nelle zone temperate, "naturalmente" portate allo sviluppo industriale; ai paesi delle zone calde viene riservato il compito di fornire prodotti agricoli.

 

[2] Max Weber definirà questo lungo dibattito una "pestilenza metodologica". Molti degli scritti metodologici weberiani vertono proprio su questa polemica.

 

[3] Teatro di questa "rivoluzione scientifica" è la Germania, dove si sta sviluppando un'imponente industria chimica: la grande svolta, che pone le basi della teoria atomico-molecolare, avviene nel primo Congresso internazionale di chimica convocato a Karlsruhe nel settembre 1860.

 

[4] Cfr. C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Liberlibri, Macerata 1996, p. 157.

 

[5] Cfr. ivi, pp. 43-45.

 

[6] Di qui l'espressione individualismo metodologico che viene impiegata per designare questo approccio

 

[7] Ivi, p. 169.

 

[8] Ivi, p. 123.

 

[9] Così si esprime, ad esempio, un manuale classico come quello di Eric Roll, cfr. op. cit., p. 156.

 

[10] Cfr. G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., p. 71.

 

[11] Citato in G. V. Rimlinger, Lavoro e Stato nel continente europeo, 1800-1939, in Storia economica Cambridge, vol. 8, Einaudi 1989.

 

[12] Ivi.

 

[13] Ivi.