Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

 

LA CRISI DEL 1929: BANCA, BORSA, MONETA

 

(lezione Maria Turchetto, 16/11/2007)

 

L'anno scorso vi ho parlato dell'"età dell'imperialismo" - l'epoca, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in cui si scatena l'aggressività delle grandi potenze e che ha come esito cruento la Grande Guerra. Questa lezione continua, in certo senso, il discorso: cercherò infatti di illustrare che cosa succede dopo la Prima Guerra Mondiale dal punto di vista della storia economica.

 

La Germania, che si candidava a subentrare all'Inghilterra nella leadership mondiale, ha perso la guerra. I vincitori, Inghilterra e Francia in particolar modo, si accaniscono. Ce ne dà una preziosa testimonianza un economista che sarà tra i protagonisti del pensiero economico del Novecento: John Maynard Keynes. Keynes fa parte della delegazione inglese alla Conferenza per la pace di Parigi che si riunisce all'inizio del 1919. Sdegnato per l'andamento della Conferenza, a giugno si dimette e, tornato in Inghilterra, scrive un importante saggi: Le conseguenze economiche della pace.  Descrive l'atteggiamento vendicativo dei vincitori, ritiene profondamente sbagliata la loro scelta di imporre alla Germania clausole di riparazione (cioè indennità da pagare in denaro) vessatorie, impossibili da pagare per quanto alte potessero essere le future esportazioni tedesche. Definisce i trattati usciti dalla Conferenza una "pace cartaginese".

 

Uno sguardo più generale ai problemi economici del primo dopoguerra ci mostra tre ordini di fenomeni importanti. In primo luogo, il mercato europeo risulta ristretto: la Germania è isolata commercialmente dai trattati di pace; in Russia, grande mercato di sbocco europeo, c'è stata la rivoluzione bolscevica e il paese si chiude programmaticamente ai rapporti con il capitalismo. In secondo luogo, i  paesi europei, che hanno subito ingenti distruzioni, devono affrontare il problemi della ricostruzione e della riconversione industriale (gli USA, invece, hanno un apparato industriale integro e anzi potenziato dall'economia di guerra). Ci sono, infine, problemi monetari: tutti i paesi europei risultano infatti indebitati nei confronti degli USA e il risultato è che gli USA detengono la maggior parte dell'oro mondiale.

 

Apriamo una parentesi sui SISTEMI MONETARI. Fino alla Prima Guerra Mondiale, il commercio internazionale si basava sul sistema detto gold standard: i pagamenti internazionali si fanno in oro, l'oro circola liberamente e i biglietti di banca sono convertibili in oro. Il sistema viene sospeso durante la guerra.

Subito dopo la guerra, i paesi europei passano al sistema gold bullion standard: i biglietti sono convertibili in barre o lingotti che però restano nelle banche e sono controllate dalla banca centrale, che consente di usare l'oro solo per pagamenti all'estero di una certa importanza. Questo sistema mira a evitare esportazioni incontrollate di oro all'estero, elimina l'oro dalla circolazione interna e consente un controllo da parte della banca centrale.

Tutti i paesi europei - e soprattutto l'Inghilterra, che prima della guerra aveva la moneta più forte - cercano di recuperare le riserve auree e la convertibilità in oro della propria moneta. L'oro si recupera con il saldo attivo della bilancia commerciale, cioè con un aumento delle esportazioni rispetto alle importazioni. Le esportazioni possono aumentare nella misura in cui le merci risultano competitive, cioè hanno prezzi più bassi. I prezzi più bassi si possono ottenere tagliando i costi, cioè, in ultima analisi, i salari (e la spesa sociale). Questa politica deflazionistica viene portata avanti un po' in tutta Europa (farà eccezione la Germania nazista), e in modo particolarmente deciso in Inghilterra. Keynes è di nuovo molto critico nei confronti di questa linea di politica economica: scrive un nuovo saggio, molto importante perché contiene le premesse di quella che sarà la sua celeberrima Teoria Generale, che ripete il fortunato titolo del primo, Le conseguenze economiche del signor Churchill.

Keynes aveva quasi sempre ragione. Nonostante l'Inghilterra affami letteralmente la sua popolazione lavoratrice, non ce la fa: nel 1931 è costretta a sospendere la convertibilità in oro della sterlina. Seguono a ruota tutte le altre divise europee, in una crisi monetaria che ha l'effetto di fermare o quasi il commercio internazionale. Tanto per dare un'idea, la mole degli scambi internazionali era valutata, nel 1929, in 2998 $; nel 1933, dopo la crisi monetaria, in 992 $. I paesi si ripiegano sul proprio mercato interno e coloniale. Inizia l'epoca delle "autarchie", degli "splendidi isolamenti"...

La situazione durerà fino al secondo dopoguerra, quando gli USA, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, imporranno un nuovo sistema, il gold exchange standard: l'oro è centralizzato nella banca centrale che può cedere, contro la moneta nazionale, oro oppure, al posto dell'oro, divise convertibili in oro (di fatto, le riserve sono costituite da oro e divise convertibili in oro). Il sistema favorisce le divise convertibili in oro, attribuendo ad esse un grande vantaggio rispetto a quelle non convertibili. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'unica moneta convertibile in oro è il dollaro USA.

 

Ma gli USA non erano già vincitori dopo la Prima Guerra Mondiale? E non godevano, rispetto agli alleati europei, di enormi vantaggi economici (riserve auree, apparato industriale integro…)? Come mai, nonostante questi vantaggi, e nonostante conoscano una crescita economica senza precedenti nel dopoguerra (la produzione aumenta del 12% nel periodo bellico, del 64% tra il 1922 e il 1928), vengono poi travolti dalla crisi del ’29?

Le interpretazioni sono molte e molti sono i fattori indicati come responsabili della crisi. Una delle migliori interpretazioni è quella di John Kennet Galbraith (Il grande crollo, BUR 2003), che indica cinque fattori di debolezza dell’economia americana che covavano sotto l’eccezionale crescita: la cattiva distribuzione del reddito; la struttura del sistema finanziario; la struttura del sistema bancario; l’eccesso di prestiti a carattere speculativo; le errate scelte di politica economica.

DISTRIBUZIONE DEL REDDITO. Nonostante vista dall’Europa impoverita dalla guerra l’America sembrasse il paese di Bengodi, dove la gente possedeva l’automobile, il tostapane, il telefono, la radio e nuove diavolerie come il cellofan e la gommapiuma, il benessere riguardava soprattutto i ceti medi, certamente in espansione. L’enorme produzione veniva portata avanti in regime di bassi salari, resi praticabili dalla fortissima immigrazione. Gli immigrati erano disperati disposti a lavorare per salari da fame e in nero (e certamente anche a delinquere, non a caso gli anni ’20 sono, negli USA, anni di xenofobia spaventosa); ma anche i lavoratori regolari videro indebolirsi la loro posizione, gli scioperi venivano repressi duramente e l’American Federation of Labour, il grande sindacato americano, si indebolì fino a quasi scomparire. Dietro l’apparente benessere dei ceti medi, che avevano accesso a consumi che fino a poco tempo prima erano considerati di lusso, c’erano dunque ampie fasce sociali in condizioni di povertà e un mercato interno ristretto.

SISTEMA FINANZIARIO. Sono gli anni del boom della Borsa. Negli anni ’20 il numero e il prezzo dei titoli trattati nella Borsa di New York cresce a dismisura per effetto prima del buon andamento della produzione, poi della speculazione. I piccoli risparmiatori acquistano azioni, spesso anche a credito (il compratore pagava solo una parte dei titoli e prendeva il resto a prestito, dando in garanzia le azioni stesse) e puntando sempre più sul capital gain  (cioè sui guadagni derivanti dalla compravendita delle azioni) più che sui dividendi.

SISTEMA BANCARIO. Le banche dell’epoca investivano massicciamente in titoli azionari provenienti dal settore industriale. Il sistema, detto della banca mista, vigeva non soltanto negli USA, ma anche in Europa: questo causò la diffusione degli effetti della crisi a livello mondiale. Negli anni ’30, dopo lo choc della crisi, furono ovunque adottate legislazioni che miravano a mantenere una netta separazione tra banca e borsa (in Italia, con la legge bancaria del 1936).

SCELTE DI POLITICA ECONOMICA. A livello di politica internazionale, negli USA si affermò un orientamento isolazionista (il democratico Wilson aveva promosso la Società delle Nazioni, ma la successiva vittoria del repubblicano Harding nel 1920 comportò un’inversione di rotta – tanto che gli USA non aderirono): niente trattati internazionali in materia economica, dunque, niente piani Marshall: ci fu un sostanziale disinteresse pubblico per la ricostruzione europea: Sul piano interno, venne portata avanti una politica economica classicamente liberista: il potere politico doveva fare un passo indietro di fronte agli interessi privati. Per favorire gli investimenti vennero ridotte al minimo le imposte dirette (che colpiscono i redditi) e aumentate quelle indirette (che colpiscono i consumi); diminuì la spesa pubblica e si rinunciò ad avviare programmi di assistenza per le classi più povere; si praticò una politica di bassi tassi di interesse, che rende più facile l’accesso al credito e aumenta la liquidità del sistema.

PRESTITI. I bassi tassi di interesse favorivano, come si è detto, la concessione di prestiti: prestiti al consumo (è l’epoca in cui prendono piede i pagamenti mediante rateizzazione), ma soprattutto prestiti all’estero. L’Europa è affamata di denaro per la ricostruzione: al disinteresse pubblico degli USA per questa vicenda corrisponde un fortissimo interesse dei banchieri e degli speculatori privati che prestano ai paesi e alle imprese europee impegnate nella ricostruzione. E’ un affare d’oro, e la vera spiegazione di come sia stata possibile l’eccezionale crescita americana del primo dopoguerra: con i prestiti delle banche USA (molto remunerativi e a breve) gli europei acquistano infatti prodotti dell’industria USA, alimentando una domanda che il ristretto mercato interno non avrebbe potuto creare.

 

Ma la ricostruzione europea, e la conseguente domanda che essa alimentava, a un certo punto finisce. I capitali che fluivano in Europa come prestiti tornano improvvisamente negli USA, attratti dal rialzo dei titoli azionari conseguente al buon andamento industriale. L’andamento industriale, in realtà, non è più positivo: una prima battuta d’arresto era stata registrata nel 1927, all’inizio del 1929 si registra un calo della produzione generalizzato. La borsa, tuttavia, continua a salire per il fenomeno del rientro dei capitali di cui si è detto: è chiaro che si sta formando una “bolla” che non ha più alcuna corrispondenza con l’andamento industriale. Molti cominciano a temere un calo imminente e cominciano a liquidare i propri titoli. Si diffonde il panico: il 24 ottobre, il giovedì nero, vengono ceduti 13 milioni di azioni; il 29 oltre 16 milioni. Tutti cercano di liberarsi delle azioni e il loro valore crolla in un ribasso inarrestabile: fatto 100 l’indice del valore del mercato azionario nel settembre 1929, esso sprofondò a 15 nel giugno 1932. Molte fortune vennero polverizzate in pochi giorni.

 

Indici della produzione industriale

La seguente tabella riporta gli indici della produzione industriale negli anni immediatamente seguenti la crisi del 1929 ponendo come riferimento a 100 il valore nel 1929.

 

Stato

1930

1931

1932

1933

1934

1935

Stati Uniti

83

69

55

63

69

79

Gran Bretagna

94

86

89

95

105

114

Francia

 

99

85

74

83

79

Germania

86

72

59

68

83

96

Austria

 

91

78

66

68

75

Italia

 

93

84

77

83

85

Svezia

 

102

97

89

93

111