Maria Turchetto
economia e società - materiali del corso

 

Lezioni per il Modulo Introduttivo alla Storia contemporanea

IMPERIALISMO ED ECONOMIA

Maria Turchetto

 

 

Il mio insegnamento, nel corso di laurea triennale in storia, è storia del pensiero economico: non sono una storica di professione, quindi vi presenterò i "fatti" da un punto di vista particolare, facendo riferimento alle teorie economiche che li hanno interpretati.

 

Le principali elaborazioni in tema di imperialismo sono indicate nella bibliografia, che commento subito brevemente. Si tratta di opere di autori di diversa provenienza e formazione: la prima e l'ultima in ordine cronologico (L'imperialismo di Hobson del 1902 e la Sociologia dell'imperialismo di Schumpeter del 1919) sono di autori non marxisti (peraltro entrambi parecchio eretici nei confronti della teoria economica ufficiale), le altre tre rappresentano le più importanti elaborazioni di orientamento marxista (Il capitale finanziario di Hilferding e L'accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg rappresentano contributi fortemente originali, mentre L'imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin si autodefinisce "saggio popolare" e rappresenta una sorta di compendio delle principali teorie in tema di imperialismo). Queste opere hanno in comune una valutazione dell'epoca che analizzano - l'"età dell'imperialismo", ossia gli anni a cavallo tra la fine dell''800 e l'inizio del '900: è un epoca diversa, che segna una cesura rispetto al passato recente, sul piano politico come su quello economico. Più precisamente, secondo questi autori, esiste un preciso nesso tra i nuovi processi politici in atto e alcune trasformazioni che sono intervenute nella sfera economica, cambiando il volto del sistema economico che tutti designano ormai tranquillamente come "capitalismo".

In altre parole, secondo questi autori, ci sono nuove politiche, trasformazioni nelle politiche praticate dagli Stati, che hanno alle spalle trasformazioni economiche. In questo senso in tutte le opere menzionate il termine "imperialismo" compare in una accezione ben specifica, ossia per segnalare che alcune caratteristiche assunte dall'economia capitalista deteterminano politiche di conquista e di aggressione. In questa accezione il termine "imperialismo" verrà impiegato anche dopo il periodo storico che stiamo considerando (ad esempio, nel secondo dopoguerra e in particolare ai tempi della guerra del Viet Nam si parlerà ampiamente di "imperialismo americano"), ma non prima. Il termine "imperialismo", così come lo troviamo impiegato nelle opere citate, pubblicate a cavallo della Prima Guerra Mondiale (considerata infatti "guerra imperialista" per eccellenza), allude a trasformazioni, a novità che si manifestano in campo economico e in campo politico rispetto a quello che veniva percepito come l'assetto "normale" delle relazioni politiche e come il carattere "tipico" dei processi economici consolidatisi in seguito alla rivoluzione industriale.

 

Quali sono le trasformazioni segnalate?

Sul piano POLITICO, un'ondata di conquiste coloniali senza precedenti. O meglio, senza precedenti nell'"età contemporanea": l'unico precedente paragonabile in termini quantitativi è la conquista cinquecentesca delle Americhe che apre l'"età moderna".

In brevissimo, e rinviando al manuale per una più dettagliata cronologia dei fatti.

 

Abbiamo innanzitutto la conquista dell'AFRICA da parte delle principali potenze europee. La FRANCIA istituisce un protettorato sulla Tunisia nel 1881, ma è soprattutto l'INGHILTERRA a scatenare la corsa all'Africa, occupando l'Egitto nel 1882, penetrando in Sudan, Kenya e Uganda negli anni successivi e muovendo, nell'Africa australe, dalla colonia del Capo che possedeva fin dal 1814 contro le repubbliche boere del Transvaal e dell'Orange (che verranno conquistate in seguito alla guerra anglo-boera, 1899-1902). E' certamente la sete di ricchezze a spingere l'Inghilterra alla conquista dell'Africa (impianto di nuove produzioni di cotone sostitutive di quella americana in declino, scoperta di giacimenti auriferi e diamantiferi nell'Africa australe): si parla infatti, a proposito di questa nuova ondata coloniale, di colonie di sfruttamento per distinguerle dalle colonie di popolamento caratteristiche dell'età moderna. Ma vi sono altre ragioni economiche, oltre a quelle della pura razzia di ricchezze e materie prime, e ragioni più propriamente strategiche per il controllo territoriale. L'Inghilterra mira anzitutto al controllo di grandi vie commerciali (centrale, ad esempio, è la questionedel Canale di Suez, aperto nel 1869), e tenta una congiunzione dei territori conquistati in direzione nord-sud, sul versante dell'Oceano Indiano.

Questa espansione inglese si scontra con quella francese, che procede invece lungo l'asse ovest-est, lungo una linea a sud del Sahara che ottiene il congiungimento alla Tunisia (cui si aggiungono Algeria e Marocco) e prosegue verso l'Oceano Indiano fino a raggiungere l'alta valle del Nilo. Qui le linee dell'espansione inglese e di quella francese si scontrano nel 1898 provocando una gravissima crisi internazionale: si arriva all'orlo del conflitto, scongiurato all'ultimo dalla ritirata francese.

Se Inghilterra e Francia rappresentavano all'epoca le "superpotenze" riconosciute (e i paesi a capitalismo avanzato), nella corsa all'Africa si segnalano nuovi concorrenti: il BELGIO (lungo il fiume Congo); l'ITALIA (che fonda nel 1890 la colonia Eritrea ma che mira soprattutto all'Etiopia, dove - caso unico nella storia delle conquiste coloniali del periodo - viene sconfitta in modo durissimo, tanto da uscire per il momento di scena); e soprattutto la GERMANIA. La Germania entra potentemente nella competizione, occupando territori in punti strategici: lungo le coste atlantiche (Togo e Camerun, a ridosso dei possedimenti francesi), lungo le coste dell'Oceano Indiano (l'odierna Tanzania, che inerrompe in modo significativo la linea nord-sud dei possedimenti inglesi), mentre la testa di ponte tra Mediterraneo e Oceano Indiano è rappresentata dalla Turchia (che svolge il ruolo di controllo strategico di vie commerciali che ha l'Egitto per l'Inghilterra).

 

Se l'Africa piange, letteralmente massacrata dalle potenze europee, gli altri continenti non ridono. In ASIA è all'ordine del giorno la conquista della Cina: già oggetto di una prima penetrazione europea con la "guerra dell'oppio" (episodio spaventoso, su cui varrebbe la pena di soffermarsi se il tempo non stringesse; per chi avesse qualche curiosità, segnalo la bellissima ricostruzione proposta nell'opera di Rosa Luxemburg in bibliografia), diventata poi "semicolonia di tutti" (come aveva mostrato nel 1900 la repressione della "rivolta dei boxer", condotta "per motivi umanitari" da ben otto potenze alleate, Italia compresa), diventa oggetto del contendere per due nuovi competitori: RUSSIA (che mira alla conquista della Manciuria per dare al progetto della ferrovia transiberiana uno sbocco più conveniente di Vladivostok) e GIAPPONE (unica potenza capitalistica non occidentale, che debutta nel mondo imperialista) si scontrano nel 1904.

 

Infine l'AMERICA LATINA è oggetto dell'espansione USA: anche in questo caso debutta un nuovo protagonista sulla scena della conquista del mondo, e farà a lungo parlare di sé. La guerra ispano-americana (scoppiata nel 1898 e vinta in pochi mesi dagli USA) rappresenta l'episodio decisivo. Questa guerra, oltre a eliminare la Spagna dal novero delle potenze che decidono i destini del mondo e a sancire la piena prevalenza dell'influenza USA sull'America Centrale, ha una significativa estensione in direzione dell'Asia, sul versante del Pacifico: precisamente, nella colonia spagnola delle Filippine. Qui era in atto un'insurrezione per l'indipendenza che fornisce agli USA il pretesto per affrontare la flotta spagnola a Manila. Anche allora, come oggi, gli USA si mostravano molto zelanti nei confronti dei popoli oppressi. Almeno per quanto riguarda le Filippine, la storia si è incaricata di ridimensionare le buone intenzioni: il movimento indipendentista delle Filippine fu represso duramente dagli americani. L'intervento nelle Filippine non rappresentava nemmeno una necessità militare rispetto alla guerra contro la Spagna: come suggerisce il vostro manuale, gli USA desideravano piuttosto assicurarsi una base coloniale vicina alle coste cinesi e al Giappone.

 

Questi, in estrema sintesi, i principali avvenimenti politico-militari a proposito dei quali, a cavallo tra '800 e '900, si parla di "imperialismo". Possiamo utilizzare una lapidaria definizione di Lenin per riassumerli in una sola frase: "la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche".

La frase citata fa parte di una celeberrima definizione in cinque punti dell'"imperialismo" contenuta nell'opera di Lenin L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916). Come ho già detto, questo "saggio popolare" è una specie di compendio delle principali "interpretazioni economiche dell'imperialismo" (come le definisce il manuale che vi è stato consigliato, che dedica loro un certo spazio). Vale la pena di leggere la definizione per intero proprio perché, appunto per questo suo carattere riassuntivo, può rappresentare una buone introduzione alle trasformazioni di carattere ECONOMICO che con il termine "imperialismo" vengono segnalate in questo periodo.

 

"Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell'imperialismo, si dovrebbe dire che l'imperialismo è lo stadio monopolistico dell'imperialismo [...]. Ma tutte le definizioni troppo concise [...] si dimostrano tuttavia onsufficienti, quando da esse debbono dedursi i tratti più essenziali del fenomeno da definire. Quindi [...] dobbiamo dare una definizione dell'imperialismo che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè: 1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo 'capitale finanziario', di un'oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall'esportazione di capitale in confronto con l'esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche" (p. 128).

 

Si parla dunque di monopoli (cioè di imprese giganti, gli esempi che fa Lenin sono la Standard Oil e la General Electric) e del loro carattere internazionale, vale a dire di ciò che oggi chiamiamo "multinazionali"; si parla di "capitale finanziario" e di finanziarizzazione dell'economia; si parla di esportazione di capitali che prevale, per importanza economica, sull'esportazione di merci. Probabilmente questi termini, che vengono coniati a cavallo tra '800 e '900, vi ricorderanno molto da vicino quelli che ricorrono oggi quando si parla di "globalizzazione". In effetti, ho l'impressione che il termine "globalizzazione" non sia che un eufemismo che ha sostituito il vecchio termine "imperialismo". Eufemismo, perché il termine "imperialismo" ha una connotazione negativa che il termine "globalizzazione" non ha: segnala il nesso tra internazionalizzazione dei processi economici e aggressività delle politiche di potenza praticate dalle "più grandi potenze capitalistiche". La perdita di questo nesso rappresenta, a mio avviso, il punto debole dell'attuale dibattito sulla "globalizzazione" e la forza dei vecchi autori che vi ripropongo qui in una rapida carrellata, sperando di incuriosire qualcuno e di suscitare il desiderio di approfondirli.

 

C'è un'eccezione, in realtà, fra gli autori che vi ho proposto: SCHUMPETER, che liquido subito perché è il meno convincente.

Secondo Schumpeter, il capitalismo è di per sé un sistema essenzialmente pacifico, proprio perché interessato alla crescita economica, al commercio e agli affari, e non all'espansione territoriale, alla conquista militare e alla guerra. Quest'ultimo interesse è considerato un atavismo, un residuo del passato, di classi dirigenti e caste militari ereditate da società precapitalistiche, in quanto tale destinato col tempo - e con l'espansione del capitalismo - a scomparire. A quasi un secolo di distanza, credo possiamo dire che il capitalismo si è certamente espanso, ma le guerre e le politiche di aggressione militare non solo non sono scomparse, ma non si sono affatto ridotte e anzi sono cresciute per dimensione e capacità distruttiva.

Mi rendo conto di liquidare Schumpeter in un modo assolutamente sbrigativo (è un autore che apprezzo molto per altri aspetti), ma mi sembra più stimolante il punto di vista degli altri autori, ossia l'idea che tra crescita (e trasformazione) del capitalismo e politiche di potenza visia un nesso ben preciso. E poiché il tempo è poco, scelgo di dedicare più spazio a queste diverse interpretazioni. Le quali, come vi dicevo, a parte la comune idea del nesso tra imperialismo e trasformazioni del capitalismo, sono tra loro diversificate. Oltre che delle diverse formazioni degli autori, risentono anche della situazione specifica del paese di provenienza. Voglio dire che, in qualche modo, "si sente" che Hobson ha come principale osservatorio l'Inghilterra, Hilferding ha piuttosto sotto gli occhi la situazione della Germania, e via dicendo. Questo, da un lato, è un "difetto", nel senso che pregiudica in parte l'obiettività e soprattutto la generalizzabilità delle loro analisi; dall'altro, per noi che li leggiamo con il senno del poi, è un'interessante indicazione di cui tener conto.

I temi trattati da questi autori sono - lo sappiamo dal "compendio" di Lenin - i monopoli, cioè le imprese giganti internazionali, il "capitale finanziario", l'esportazione di capitali.

 

Il teorico dell'esportazione di capitali è soprattutto HOBSON: cominciamo da questo autore, che del resto è anche cronologicamente il primo a impiegare il termine "imperialismo" nel significato che verrà universalmente adottato nel '900. Il termine designa le politiche adottate dagli Stati europei (Hobson non dà grande importanza a Giappone e USA, ma commenta essenzialmente le imprese africane di Inghilterra, Francia e Germania), di cui l'autore intende dare una spiegazione economica. Se l''800 si presenta dominato da politiche nazionaliste (Hobson si riferisce fondamentalmente ai processi di formazione di Stati nazionali), il '900 si apre all'insegna delle politiche imperialiste, la cui caratteristica, rispetto al passato, è quella di essere adottate da più Stati contemporaneamente e concorrenzialmente: è un "imperialismo su base nazionalistica", considerato da Hobson una perversione e un tradimento sia del cosmopolitismo illuminista, sia del nazionalismo ottocentesco. Tale "imperialismo nazionalistico" consiste nella lotta tra gli Stati nazionali più forti per assicurarsi il controllo politico ed economico di terre abitate da "razze inferiori". Si formano così più "imperi" (aree di influenza egemonizzate da Stati economicamente forti) in concorrenza per l'ulteriore espansione. La ragione di queste politiche è fondamentalmente economica, e risiede nella necessità di trovare sbocchi alla sovrapproduzione di merci e soprattutto di capitali, che si verifica nelle società di tipo capitalistico a causa di una cronica carenza di consumo ed eccesso di risparmio, a loro volta dovuti alla cattiva distribuzione dl reddito e alla "mentalità" prevalente in tali società (il borghese è taccagno). Le possibili soluzioni sono un cambiamento di mentalità, una politica di redistribuzione dei redditi e di consumi pubblici, oppure l'esportazione dei capitali in eccesso: è la soluzione peggiore, ma l'unica di fatto praticata. Peggiore non solo dal punto di vista "etico", ma soprattutto dal punto di vista della "ricchezza della nazione" che stava a cuore ad Adam Smith. Dal punto di vista nazionale, infatti, i costi dell'imperialismo (spese militari, ecc.) sono superiori ai vantaggi, che premiano soprattutto gli "investitori" (gli speculatori finanziari) più che i "commercianti" e i "produttori". Ne consegue, tra l'altro, la terziarizzazione delle economie dei paesi avanzati: le produzioni "materiali" (primario e secondario) si spostano verso le aree coloniali, mentre nei paesi sviluppati crescono le attività di servizio "immateriali" (testuali parole...). Le oligarchie finanziarie dei paesi avanzati sfruttano in modo parassitario i paesi sottosviluppati, senza vantaggio per il benessere generale degli stessi paesi avanzati, all'interno dei quali si allarga la forbice tra ricchi e poveri. E' una situazione di decadenza, che Hobson non esita a paragonare a quella del tardo Impero Romano.

L'analisi di Hobson è molto pertinente all'Inghilterra dell'epoca, in cui è in corso un massiccio processo di deindustrializzazione, a carico soprattutto del settore tessile, già protagonista della rivoluzione industriale (viene spostato in India, in Italia, in Giappone: in questi due ultimi paesi dà il via a processi di industrializzazione). Innegabili le analogie con quanto sta succedendo oggi all'industria dell'automobile.

 

Ma si tratta di un'analisi esportabile fino a un certo punto. In Germania, ad esempio, anziché un processo di deindustrializzazione-terziarizzazione, è in atto un processo di industrializzazione accelerata su nuovi settori di punta (chimica, elettricità, acciaio: produzioni tutt'altro che "immateriali", come si vede). Eppure anche in Germania sono riscontrabili i fenomeni della esportazione di capitali e della finanziarizzazione dell'economia, come ci segnala il tedesco HILFERDING nella sua opera Il capitale finanziario (1909). E' interessante segnalare subito il diverso atteggiamento di questo autore nei confronti del "capitale finanziario": per Hobson si tratta di un fenomeno eminentemente degenerativo, parassitario e pericoloso; per Hilferding, al contrario, è un fenomeno in ultima analisi positivo, che dà stabilità all'economia.

Secondo Hilferding, il capitale finanziario nasce dai processi di concentrazione capitalistica, ossia dall'aumento delle dimensioni delle imprese e dei capitali necessari per l'investimento: aumentano le dimensioni degli impianti, aumentano le spese per la ricerca - fenomeno quest'ultimo particolarmente visibile nella Germania attraversata dalla "rivoluzione chimica", dove sorgono grandi laboratori privati. Per far fronte a questa aumentata necessità di capitali, le imprese assumono la forma della società per azioni, istituzione in grado di raccogliere tutti i valori-capitale esistenti, prima soprattutto attraverso la borsa, poi, nel capitalismo più recente, attraverso le banche. Il nuovo ruolo assunto in questo senso dalle banche si nota soprattutto in Germania: come fa notare Hilferding, mentre in Inghilterra la banca offre soprattutto credito di circolazione, cioè fornisce la liquidità necessaria alle transazioni commerciali, in Germania offre soprattutto credito di capitale, cioè credito per investimenti. Le conseguenze di questo nuovo ruolo svolto dalle banche sono rapporti più organici tra banche e imprese: da un lato, le imprese possono contare su un sostegno finanziario continuativo e sono perciò meno esposte al rischio; dall'altro lato le banche, per garantirsi, entrano nei consigli di amministrazione delle imprese ed esercitano un controllo sulle decisioni di investimento. Per limitare il rischio, inoltre, le banche stringono rapporti con più imprese, dunque limitano la concorrenza, promuovono la formazione di trust e comunque di accordi fra imprese; introducono addirittura, secondo Hilferding, "elementi di pianificazione". Il capitalismo più avanzato - quello che sta soppiantando l'Inghilterra - è dunque caratterizzato dall'intreccio di capitale bancario e capitale bancario, ciò che Hilferding definisce appunto "capitale finanziario". Il fenomeno, secondo l'economista tedesco, è in ultima analisi positivo, perché rende il sistema più stabile e meno esposto alle crisi.

L'analisi che Hilferding dedica al problema delle crisi economiche è di grande interesse. Nelle crisi, secondo Hilferding, vanno distinti gli aspetti creditizi e speculativi rispetto agli aspetti strutturali, questi ultimi legati in parte al problema delle sproporzioni tra settori, in parte alla "caduta tendenziale del saggio di profitto" enunciata da Marx. Le banche sono in grado di controllare molti aspetti creditizi (le crisi di liquidità, le corse alla tesaurizzazione dovute al panico, ecc.) e speculativi; d'altra parte, la formazione di cartelli e di accordi fra imprese, favorita come si è visto dalle banche, attenua i problemi legati alle sproporzioni. Inoltre il capitale finanziario è uno strumento che facilita l'esportazione di capitali verso paesi più arretrati, dove vi sono condizioni che consentono saggi di profitto più elevati, contrastando la caduta del saggio di profitto.

Come si vede, anche l'esportazione di capitali è considerata da Hilferding in un'ottica diversa da quella di Hobson. Non si tratta di uno spostamento della produzione tout court verso i paesi arretrati, quanto piuttosto di uno spostamento delle produzioni che non rendono più un saggio di profitto conveniente nel paese d'origine verso paesi dove è possibile un saggio di profitto più elevato (ad esempio, la Germania costruisce ferrovie in Turchia), mentre nei paesi avanzati rimangono le produzioni di punta, che necessitano di ricerca, mano d'opera specializzata, ecc.

 

Abbiamo visto per sommi capi due analisi diverse, due valutazioni diverse degli stessi fenomeni - concentrazione, esportazione dei capitali, finanziarizzazione - in parte influenzate dai diversi scenari in cui gli autori si collocano: l'Inghilterra in decadenza, nel caso di Hobson; la Germania in ascesa, nel caso di Hilferding. Sarebbe interessante considerare altri autori, anch'essi almeno in parte influenzati dalla situazione particolare in cui operano. Ad esempio Rosa LUXEMBURG: la sua idea di un capitalismo che ha strutturalmente bisogno di un ambiente non capitalistico in cui svilupparsi, riversandovi le merci e i capitali che produce in eccesso - una posizione sottoconsumista, non lontana per certi aspetti da quella di Hobson - risente sicuramente dello sviluppo del capitalismo in Polonia, caratterizzato da una cronica ristrettezza del mercato interno e dipendente in larghissima misura dalle esportazioni verso la Russia. Le conseguenze teoriche della tesi della Luxemburg risultano oggi poco credibili - ed erano già all'epoca oggetto di critiche: per riversare merci e capitali in eccesso nell'ambiente non capitalistico è necessario crearvi un mercato, rapporti capitalistici, imprese; in una parola, renderlo capitalistico. Ma a questo punto i limiti propri del capitalismo si ripropongono anche nei paesi in cui il capitalismo è penetrato. Detto altrimenti, il capitalismo non può semplicemente nutrirsi di economie precapitalistiche lasciandole intatte, deve trasformarle in economie capitalistiche, ma così facendo esaurisce l'ambiente di cui si alimenta. Una volta che i rapporti capitalistici siano diffusi ovunque, il capitalismo è destinato a finire.

Al di là di questa tesi "crollista", ciò che dell'opera della Luxemburg rimane di più valido è l'analisi storica e teorica dei processi di penetrazione del capitalismo nei paesi non capitalisti: attraverso la "lotta del capitale contro l'economia naturale" (che consiste sostanzialmente nell'introduzione della proprietà privata e di relazioni mercantili di tipo monetario in società in cui tali istituzioni non esistono - i casi dell'India britannica e dell'Algeria francese sono in tal senso ricostruiti in modo esemplare); la successiva "lotta contro l'economia mercantile semplice" (in cui si verifica l'introduzione della produzione capitalistica, ad esempio attraverso la creazione di infrastrutture "moderne" in Egitto, sotto il patronato inglese, e in Turchia, ad opera del capitale tedesco); infine, la "lotta di concorrenza fra i capitali su scala mondiale per l'accaparramento delle residue possibilità di accumulazione". Quest'ultima fase coincide con l'imperialismo propriamente detto, che dunque non è semplice espansione nello spazio mondiale ma - per usare l'espressione di Hobson - "lotta tra imperi concorrenti" in un mondo già interamente occupato.

 

Spendiamo qualche ultima parola sull'opera di LENIN, anch'essa influenzata da una circostanza particolare, in questo caso "storica" più che "geografica": quando Lenin scrive il suo "saggio popolare", nel 1916, è scoppiata la Prima Guerra Mondiale, mentre in Russia si prepara la Rivoluzione. Come ho già accennato, l'Imperialismo di Lenin è un'opera di compendio: in certo senso, possiamo dire che è un inesto della teoria di Hobson su quella di Hilferding (Lenin è del tutto esplicito nel riferire queste fonti). Il capitalismo, secondo Lenin, si è trasformato nel senso indicato da Hilferding. Se torniamo alla definizione in cinque punti precedentemente citata, vediamo che la stessa terminologia impiegata richiama l'opera di Hilferding: concentrazione della produzione e del capitale, fusione del capitale bancario e del capitale industriale e formazione del "capitale finanziario". Nei capitoli che svolgono questi punti, del resto, Hilferding è continuamente citato. Ma la conseguenza di queste trasformazioni, secondo Lenin, non è affatto, come pensava Hilferding, un capitalismo più stabile e maturo. Al contrario, è un capitalismo "parassita e putrefatto", un capitalismo di "Stati usurai", esattamente come diceva Hobson, che sfruttano il resto del mondo: "il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e in una immensa massa di Stati debitori" (Lenin, op. cit., p. 141). Non solo, poiché il mondo è ormai completamente occupato dalle "più grandi potenze capitalistiche", come leggiamo nel quinto punto della definizione, si scatena la "lotta tra imperi concorrenti", dunque la guerra mondiale come conseguenza inevitabile dell'evoluzione del capitalismo.

Dunque il capitalismo va fermato, rovesciato attraverso un'azione rivoluzionaria, perché giunto a questo stadio del suo sviluppo porta con sé soltanto sfruttamento e distruzione, catastrofi per l'umanità intera. Il capitalismo ha esaurito la sua funzione storica di produrre "ricchezza": ora produce solo morte. Comprendiamo così il significato del titolo completo dell'opera di Lenin: l'imperialismo è la fase suprema del capitalismo, cioè l'ultima. L'umanità - o la Storia con la S maiuscola - non lo sopporterà oltre.

 

 

TEORIE SULL'IMPERIALISMO

bibliografia

 

testi citati:

Hobson, L'imperialismo (1902), ISEDI, Torino 1974

Hilferding, Il capitale finanziario (1909), Feltrinelli, Milano 1961

Luxemburg, L'accumulazione del capitale (1913), Einaudi, Torino 1980

Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), Editori Riuniti, Roma 1974

Schumpeter, Sociologia dell'imperialismo (1919), Laterza, Bari 1972

testi di riferimento generale:

Mommsen, L'età dell'imperialismo, Feltrinelli, Milano 1990

Tom Kemp, Teorie dell'imperialismo, Einaudi, Torino 1969

R. Monteleone, Teorie sull'imperialismo