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KEYNES, JOHN MAYNARD, Le conseguenze economiche della pace
KEYNES, JOHN MAYNARD, La fine del 'laissez
faire' e altri scritti economico-politici
recensione
di Graziani A., L'Indice 1991, n. 9
La ristampa
in traduzione italiana di due lavori che risalgono a sessanta o settant'anni fa,
ci porta a riflettere ancora una volta sul pensiero di Keynes e al tempo stesso
ci induce a pensare come i problemi di politica economica tendano a presentarsi
e ripresentarsi in forme che, mentre sembrano sempre nuove, racchiudono in
realtà una sostanza che si ripete. Diceva Schiller che le uniche cose veramente
nuove sono quelle che non si sono mai verificate; tutto ciò che vediamo nella
realtà è già vecchio.
Le due pubblicazioni
sono diverse per epoca
e per intenti. La prima ("Le conseguenze economiche della pace" del 1919) è
apparsa in una nuova edizione italiana, a cura di Marcello de Cecco, nell'ormai
lontano 1983, prima della caduta del muro di Berlino e ancora prima che
nell'Unione Sovietica Gorbaciov avviasse la perestrojka. La seconda ("La fine
del "laissez-faire" e altri scritti", a cura di Giorgio Lunghini) è una novità
editoriale che, a giudicare dalla scelta dei testi, si richiama a problemi
dell'economia italiana di oggi. Si tratta di testi che, in epoche vicine o
lontane, erano già apparsi in edizione italiana. Le due iniziative sono più che
opportune (ma è un vero peccato che le due esimie case editrici abbiano oprato
per una ristampa identica delle traduzioni italiane preesistenti, senza
procedere nemmeno a quei piccoli emendamenti che l'usura del tempo, le abitudini
linguistiche acquisite e non di rado anche la fedeltà al testo avrebbero
imposto).
Keynes
organizza i problemi di politica economica intorno a due grandi categorie: i
conflitti interni di classe e i conflitti internazionali. Il volumetto su "Le
conseguenze economiche della pace", che, apparso nel 1919 come critica al
trattato di pace e presto tradotto in tutte le lingue, diede a Keynes una
improvvisa celebrità, è centrato sul secondo ordine di problemi. Marcello de
Cecco, in una lucida e penetrante introduzione, pone giustamente l'accento sulle
due esigenze che influirono in modo determinante sul contenuto del trattato di
Versailles.
La prima fu il desiderio
incoercibile di porre un argine all'espansione del comunismo sovietico: di qui
la decisione di ricostituire una Germania disarmata e controllata, affiancandole
una Polonia cattolica e amica dell'occidente e una Romania stato cuscinetto. La
seconda fu l'intenzione, e per alcuni paesi anche il bisogno impellente, di
appropriarsi nella misura più ampia di ogni risorsa economica della Germania e
dei suoi possedimenti coloniali, allo scopo di alleviare i gravissimi problemi
economici dei paesi vincitori. Il primo obiettivo, da Keynes pienamente
condiviso, avrebbe consigliato la ricostituzione di una Germania economicamente
forte e capace di fare da sostegno economico all'intera Mitteleuropa. Prevalse
invece, almeno nelle forme, il secondo e alla Germania venne imposto un trattato
che, se applicato in ogni sua clausola, avrebbe consapevolmente ridotto il paese
alla fame.
Se problemi
simili appartengono ormai alla storia, la lettura
delle pagine di Keynes ci induce a riflettere su alcuni aspetti che appartengono
invece al presente in cui viviamo. Quando Keynes scriveva, la disparità abissale
fra il benessere dei paesi avanzati e la miseria dei paesi del Terzo Mondo non
era ancora emersa come problema centrale del capitalismo con temporaneo . Quando
Keynes parla di disparità economiche egli ha in mente le differenze di reddito
che separavano i paesi ricchi di allora (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia)
dai paesi bisognosi di aiuto (Italia, Serbia, Romania).
In materia di politica economica internazionale,
Keynes
aveva un'idea chiara ed era che una comunità di nazioni indipendenti può
reggersi senza attriti soltanto se le disparità nell'ordine delle ricchezze
vengono contenute entro limiti tollerabili. Nessuna comunità internazionale, a
suo
modo di volere, può tollerare pacificamente al suo interno il contrasto fra
paesi estremamente ricchi e paesi al limite della sussistenza. Di qui la
proposta di Keynes di consentire alla Germania una ricostruzione economica
veloce e completa, e il suo dissenso rispetto all'opinione dominante,
inesorabilmente vendicativa nei confronti del nemico sconfitto.
La logica di Keynes,
tutta orientata alla ricostruzione e alla ripresa delle attività produttive, lo
induce a segnalare che, se la Germania e l'Austria si trovano sull'orlo del
collasso le condizioni economiche degli alleati europei non sono di gran lunga
migliori. Se la Germania è gravemente indebitata verso gli alleati, anche
Francia e Italia sono indebitate verso la Gran Bretagna che a sua volta è
indebitata verso gli Stati Uniti. Inoltre, tutti questi paesi sono afflitti da
inflazione veloce e debito pubblico elevato. Per consentire una ripresa rapida,
Keynes propone non solo che la Germania venga aiutata a risollevarsi, ma che
anche i debiti interalleati siano cancellati: "Non saremo in grado di fare un
passo, scrive Keynes, se non riusciamo a liberarci di queste catene di carta. Un
falò generale è necessario..." (p. 191).
Non è certamente il caso
di ignorare le ragioni politiche che ispirano le proposte di Keynes. Consentire
all'economia tedesca e austriaca una rapida ripresa significa sottrarre le
popolazioni affamate alle tentazioni di una svolta rivoluzionaria, attirare
l'Europa centrale nell'orbita delle democrazie occidentali, isolare
definitivamente l'Unione Sovietica (come ci ricorda de Cecco nella sua
introduzione, Thorstein Veblen, nel recensire il libro di Keynes l'anno stesso
della sua pubblicazione, affermò che "la clausola centrale e più vincolante del
Trattato... è quella non scritta, con la quale i Governi delle Grandi Potenze
sono uniti allo scopo di reprimere la Russia Sovietica... Naturalmente tale
patto... non è stato scritto...; si può dire che esso è la pergamena su cui il
Trattato è stato scritto").
Sempre
sul piano politico, annullare l'indebitamento fra
paesi alleati significa ridurre il potere degli Stati Uniti in Europa e aiutare
la Gran Bretagna a conservare almeno in parte la sua posizione di predominio in
Europa.
Ma
sarebbe egualmente un torto ignorare che, al di
là di questi argomenti immediati, dettati dalla situazione politica dell'epoca,
il pensiero di Keynes era alimentato anche da considerazioni di più largo
raggio, e precisamente dalla sua convinzione che disuguaglianze profonde non
possono che alimentare la ribellione e la lotta, e che l'unica via per costruire
una comunità internazionale pacifica è quella della parità di condizioni
economiche.
Viene fatto di domandarsi
quale uso abbiano fatto degli insegnamenti di Keynes le generazioni successive e
quale sorte abbiano subito i suoi auspici. Il mondo di oggi ha visto la
riunificazione dell'Europa e vedrà in un futuro forse non lontano anche l'Unione
Sovietica rientrare fra le economie di mercato e inoltrarsi sulla strada della
prosperità materiale. Questo però, a differenza di quanto frettolosamente si
afferma, è ben lungi dal significare che una nuova era di eguaglianza sia sul
punto di instaurarsi fra i paesi del mondo. Anzitutto, il passaggio
dall'economia socialista all'economia di mercato investirà più o meno 300
milioni di persone, di fronte a queste, nella sola Cina un miliardo di persone
continuano a vivere secondo lo schema dell'economia socialista. Ma, cosa assai
più rilevante, il solco fra paesi avanzati, che progrediscono verso forme di
benessere materiale sempre più elevate, e la miseria del Terzo Mondo tende a
divenire sempre più profondo. Dobbiamo ammettere che, se i dettami di Keynes
hanno qualche valore, il mondo in cui viviamo, mentre sbandiera la pace in
Europa e promette la pacificazione del medio oriente, non fa che gettare il seme
di nuovi e più vasti conflitti.
La diagnosi
si fa ancora più fosca se dai temi dell'equilibrio internazionale passiamo a
quelli della struttura economica interna. Qui ci fa da guida il secondo
volumetto, "La fine del "laisser faire"" (ci consentirà il lettore di scrivere
il famoso motto alla maniera francese, e del resto anche italiana, anziché
secondo l'uso inglese di 'laissez-faire'; uso che, anche volendo perdonate
l'abominio del trattino di congiunzione, entra in conflitto con l'aneddoto che
spiega le origini del motto: "Et alors, que faut-il faire pour vous aider?",
chiese il ministro alla delegazione di mercanti; "Nous laisser faire", risposero
quelli).
Quando passiamo
dagli affari internazionali a quelli interni, il riferimento alla situazione
italiana diventa un'attrazione non resistibile. Giorgio Lunghini, infatti, nella
sua preziosa introduzione, illustra il pensiero di Keynes senza perdere d'occhio
i problemi dell'oggi. Il problema che Keynes vede nella Gran Bretagna del 1930 è
del tutto simile a quello dell'Italia degli anni novanta: preservare la
competitività dell'industria nazionale senza trasformare il mercato in una lotta
cannibalesca alla sopravvivenza, nella quale ogni obiettivo di equità sociale
viene consapevolmente calpestato.
Anzitutto un aspetto
di carattere generale. Keynes non nutre alcuna fiducia nella possibilità che il
calcolo del profitto privato, effettuato su base aziendale, possa segnalare
correttamente gli investimenti che risultano più convenienti sotto il profilo
sociale. Keynes ritiene piuttosto che molte scelte di base in merito ai settori
industriali da sviluppare all'interno o da cedere ad altri paesi possano essere
effettuate correttamente soltanto se affidate a decisioni pubbliche. Nel nostro
paese i discorsi che coinvolgono decisioni collettive sono sempre delicati, data
la nota corruzione dei pubblici amministratori. Ma, sia pure di sfuggita, non si
può fare a meno di pensare al fatto che l'industria italiana, a cent'anni dal
suo
decollo, non è ancora riuscita a procurarsi un suo specifico settore di priorità
e che le imprese, invece di unirsi per organizzare uno sforzo comune, continuano
a battere la strada degli accordi individuali con gruppi esteri, il che uccide
qualsiasi speranza di accedere a posizioni di avanguardia tecnologica.
Se dal problema della tecnologia passiamo
a quello dei costi, che tanta parte occupa nel dibattito di oggi, la diagnosi di
Keynes è ancora più tagliente. Keynes parte da un punto analitico netto,
costituito dal rifiuto della teoria marginalista della distribuzione. Il
salario, egli afferma, non è fissato in modo inequivocabile n‚ dall'ammontare di
un mitico "fondo salari", n‚ dalla pretesa legge ferrea della produttività
marginale del lavoro. La distribuzione del reddito tra salari e profitti rientra
piuttosto fra le grandezze convenzionali e istituzionali, e ogni società è
libera di darsi, al suo interno, la distribuzione del reddito che più
si attaglia
alla propria cultura economica. In materia di salari, egli scrive, "c'è un
margine abbastanza ampio, nel quale il fattore determinante non è tanto quello
che si era soliti chiamare la legge economica, quanto abitudini e pratiche
sociali e il comportamento dell'opinione pubblica" (p. 70).
I vincoli, riconosce
lucidamente Keynes (e pare di sentirlo discutere dell'economia italiana di oggi)
vengono piuttosto dal contesto internazionale. Se vige libertà dei movimenti di
capitali, occorre che il saggio del profitto sia simile in tutti i paesi;
altrimenti una fuga di capitali dai paesi dove il saggio del profitto è più
basso, risulterà inarrestabile. Qui Keynes introduce una sua ipotesi,
discutibile, ma non priva di interesse. A suo modo di vedere, il tasso del
profitto rilevante per le decisioni del capitalista sarebbe il tasso di profitto
ottenuto dall'impresa (senza tenere conto delle imposte personali che graveranno
sul reddito individuale del capitalista) e non il reddito netto da capitale (al
netto cioè delle imposte personali pagate dai singoli capitalisti sul reddito
personale percepito). Keynes non fornisce molte spiegazioni per giustificare
questa affermazione. È presumibile che egli la basi sulla considerazione che il
profitto definisce lo stato di salute dell'impresa e quindi governa le decisioni
di investimento, mentre i redditi netti di capitale determinano soltanto la
posizione dei singoli capitalisti come persone fisiche. Profitti elevati per
l'impresa accoppiati a redditi individuali falcidiati dalle imposte personali,
otterrebbero quindi il duplice risultato di creare un incentivo al
reinvestimento dei profitti, mitigando al tempo stesso le disuguaglianze
personali.
Da questa
ipotesi Keynes ricava la sua ricetta: una politica salariale moderata, tale da
assicurare all'impresa un profitto adeguato e non indurla nella tentazione di
emigrare in altri paesi; al tempo stesso, una tassazione rigorosa dei redditi
personali. I proventi delle imposte percepite sui redditi da capitale andrebbero
infine impiegati in spese di carattere sociale, in modo da assicurare ai
lavoratori un reddito elevato in termini reali anche se il salario percepito
direttamente rimane modesto.
Non è questa
la sede per stabilire se la linea di Keynes sia coerente in se stessa e in che
misura essa risulti applicabile in casa nostra. Due sole osservazioni non
possono però rimanere inespresse. La prima è che proposte di questa fatta ci
fanno sentire quanto sia grave per il paese il fatto di non disporre di un
sistema tributario adeguato. Al giorno d'oggi, riprendendo una linea cara ai
governi italiani di tutti i tempi, ci sentiamo dire che le sorti dell'industria
italiana dipendono dai sacrifici dei salariati; e che poiché la sorte degli
stessi salariati dipende dalla sopravvivenza dell'impresa, è nel loro stesso
interesse che i lavoratori devono accettare riduzioni di salario, profitti
elevati, e disuguaglianze crescenti nella distribuzione dei redditi. La proposta
di Keynes fa crollare questa argomentazione come un castello di carte: a patto
però di disporre di un sistema tributario efficiente, che sia in grado di
scindere il rendimento del capitale investito dal reddito disponibile delle
persone fisiche, e che sia quindi in grado di far sì che i profitti di impresa,
anziché alimentare spese di lusso, si traducano in parte in nuovi investimenti,
in parte in spese di carattere sociale.
La
seconda considerazione difficile da reprimere è
la seguente. Keynes stesso ha implicitamente previsto il caso di un paese che
non disponga di un sistema tributario adeguato, o che comunque non voglia
servirsene. Ebbene, la prescrizione di Keynes in questo caso è tassativa: un
paese simile non può concedersi il lusso di aprire le frontiere ai liberi
movimenti di capitali. Ancora una volta (evidentemente senza saperlo!) il Keynes
del 1930 mette il dito su una piaga italiana degli anni novanta. Visto che il
nostro paese non dispone di un sistema tributario efficiente (e tutti lo sanno)
perché tanta fretta nel realizzare l'integrazione economica? perché addirittura
anticipare l'integrazione finanziaria rispetto agli obblighi comunitari? perché
dichiarare totalmente liberi i movimenti di capitali? Lo avrebbe visto anche un
cieco che, una volta aperte le frontiere finanziarie, per evitare fughe di
capitali, si sarebbe dovuto ridurre il costo del lavoro e rialzare i redditi da
capitale a partire dai tassi di interesse, tollerando un aumento repentino della
disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Tenuto conto di ciò, si commette
forse una maldicenza molto grave se si azzarda l'ipotesi che la fretta con cui
l'integrazione finanziaria è stata perseguita sia stata alimentata fra l'altro
dall'intenzione di fornire un argomento in più (ed un argomento di tutto
rispetto, in quanto dovuto non già ad una debolezza nazionale bensì ad un
vincolo esterno) agli apostoli dei bassi salari e della compressione del costo
del lavoro?
Keynes
era un moderato. Odiava il marxismo, "dottrina illogica e stupida" (p. 35);
diffidava della democrazia, sistema che si affida alla "grande massa di elettori
più o meno analfabeti" (p. 46). Eppure, osserva Giorgio Lunghini concludendo la
sua introduzione, "il capitalismo non ha accettato Keynes, per lo meno il Keynes
della filosofia sociale... Se il capitalismo non accetta almeno Keynes, e poiché
nessuno, credo, pensa che il capitalismo sia un sistema perfetto, allora il
capitalismo non può, siccome non vuole, essere 'migliorato'".