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SI FA… MA NON SI DICE!
È tornato il protezionismo. Ma ssssh! ragazzi: questa parola ditela a
voce bassa o non ditela proprio, perché il protezionismo è peccato
mortale da quando ci hanno imposto il “pensiero unico” liberista – un
peccato duramente sanzionato dai trattati commerciali e dagli organismi
internazionali a suon di multe e restrizioni del credito.
Eppure il protezionismo (sssh!) farebbe comodo, certe volte. Certi paesi
in via di sviluppo avrebbero fatto bene a mettere qualche dazio per
proteggere l’avvio dell’industrializzazione: ma il FMI glielo ha
impedito, condannandoli a restare paesi agricoli colonizzati dalle
multinazionali straniere – condannandoli al sottosviluppo, in parole
povere. L’Europa avrebbe fatto bene a praticare un po’ di protezionismo,
invece di impoverirsi con la corsa al ribasso dei salari. Ma non si può:
è peccato.
A dire il vero qualcuno può. Qualcuno lo fa. I potenti. Gli USA, per
esempio: proprio loro, i campioni del libero mercato! Lo fanno, ma non
lo dicono. Lo hanno fatto negli anni ’80 in campo informatico: un
protezionismo mascherato (dal momento che è peccato), quel che si dice
un “protezionismo non tariffario” – cioè non basato sui dazi ma su un
uso a dir poco spregiudicato dei brevetti. Ma lo hanno fatto: abbastanza
a lungo da eliminare ogni competitore europeo (la nostra Olivetti, per
esempio, che era all’avanguardia nel settore). Lo hanno fatto
sull’acciaio alla fine degli anni ’90, proprio un protezionismo
tariffario alla vecchia maniera, per proteggere la ristrutturazione
della loro industria (oggi sono i primi esportatori del mondo, mentre
noi… abbiamo l’ILVA). Gli europei protestavano, deploravano,
denunciavano la violazione dei trattati, ma gli americani se la
ridevano, anzi prendevano per il culo: “viva il libero mercato!”,
rispondevano alle contestazioni, e giù dazi. C’è da trasecolare a
leggere la corrispondenza internazionale di quel periodo: gli USA
negavano sfacciatamente l’evidenza. Perché, come recita una vecchia
canzoncina, “si fa… ma non si dice / però si fa, si fa , si fa”.
Ed ecco ora un altro potente alla carica: la Germania. Dazi sui pannelli
solari cinesi per proteggere il fotovoltaico tedesco. Ssssh! Non si
dice: e infatti i vertici europei hanno subito precisato che si tratta
di dazi antidumping. Non è mica vero, sapete. Il dumping –
ve lo dico perché non cerchino di menarvi per il naso con le parole –
c’è quando un paese vende un bene sul mercato estero a un prezzo
inferiore rispetto a quello praticato nel mercato interno. Ma non è
questo il caso dei pannelli e dei wafer cinesi: costano poco e basta. E
l’Europa fa protezionismo e basta, a buon pro della Germania.
Ora, che l’Europa faccia un po’ di protezionismo a me, in linea di
massima, non dispiace affatto. In questo caso, però, l’Italia ne avrà
conseguenze negative per due motivi.
Il primo è che i dazi europei manderanno a carte quarantotto il business
italico del fotovoltaico. Che, lasciatemelo dire, è un business del
cavolo per il paese: l’Italia non produce pannelli solari, li importa –
prima a poco prezzo dalla Cina, ora per forza cari dalla Germania. Tutta
la convenienza del fotovoltaico risiede esclusivamente nel percepire
incentivi e contributi statali: soldi raggranellati rincarando un po’ le
bollette dell’ENEL che ciascuno di noi paga. In altre parole, chi ha
guadagnato qualche soldino con il fotovoltaico non ha realizzato un
“profitto d’impresa”, ma ha semplicemente intascato un obolo levato a
forza dalle tasche degli italiani.
Il secondo è che protezionismo chiama protezionismo: e così la Cina ha
risposto ai dazi sui pannelli solari con sonori dazi sul vino. E il
vino, per l’Italia (molto meno per la Germania), è un business autentico
e importante. Una produzione da proteggere – diciamolo, una buona
volta.
Maria Turchetto
Il Vernacoliere,
ottobre 2013
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