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Materiali del seminario "Nuovi studi althusseriani" - Venezia, 26 giugno 2017

Il posto della filosofia e il rapporto con le scienze nel pensiero di Louis Althusser e Pierre Bourdieu.
Un’ipotesi di ricerca.

Andrea Girometti

I

Althusser e Bourdieu sono stati due intellettuali profondamente diversi e allo stesso tempo innovativi nei campi in cui hanno prioritariamente agito: quello filosofico e quello sociologico. Entrambi, allo stesso tempo, a parere di scrive, hanno promosso un mutamento – o ancor meglio una coupure nei termini bachelardiani – nel modo in cui pensare la filosofia che forse non è stato del tutto esplicitato ed è meritevole di un’indagine approfondita, pertanto della formulazione di ipotesi e di tesi da mettere alla prova. È evidente che gli approcci di un filosofo e di un sociologo alla filosofia – tanto più un sociologo come Bourdieu, che ha tentato di sottrarsi all’egemonia della filosofia come sapere principe (almeno nella Francia degli anni Cinquanta) e matrice della postura scolastica – sono profondamente diversi, se non altro perché il primo – ed è il caso di rimarcare che Althusser non ha mai smesso di essere un filosofo, cercando di spingere il pensiero all’estremo – pensa direttamente e in positivo, all’interno del suo campo, mentre il secondo vi pensa di riflesso e all’occorrenza in negativo, com’è il caso del sociologo francese.

II

La ricerca che s’intende promuovere consiste nel mettere in relazione le posizioni dei due autori al fine di rilevare il posto occupato dalla filosofia e il rapporto con le scienze nel percorso teorico dei medesimi. Infatti, che vi sia all’opera una filosofia, più o meno spontanea, anche in chi ne nega la pretesa di sapere infondato – quindi puro in quanto non determinato, anche solo parzialmente, dalle condizioni sociali ed economiche – se non nei termini di un’auto-fondazione logico-razionale o della pretesa di sottrarre all’oggettivazione l’umano e quelli che si suppongono essere i suoi valori, è un aspetto difficilmente sostenibile. E lo stesso Bourdieu, nel suo testo forse più filosoficoMéditations pascaliennes – non esita, di fronte a chi interessatamente gli chiede qual è il suo rapporto con Marx, a dirsi pascaliano, a riprenderne il motto per cui «la vera filosofia si prende gioco della filosofia», a rimarcare l’attenzione per le «sane opinioni del popolo» e il riconoscimento di quanto gli umani siano parimenti automatismo e spirito. Allo stesso tempo Bourdieu ricostruisce, secondo uno stile che si vuole impersonale, le sue maggiori influenze filosofiche durante il periodo di normalien atipico: dall’allora minoritaria corrente dell’epistemologia storica francese, alla fenomenologia di marca husserliana (individuando in Maurice Merleau-Ponty il tentativo di concepire la fenomenologia come una scienza rigorosa), da Wittgenstein ad alcuni spunti nietzschiani, fino a far propria, in più punti, la lezione spinoziana come quando intravede in diversi passi del Tractatus «il programma di un’autentica scienza delle opere culturali»[1]. In effetti, la principale accusa di Bourdieu alla filosofia, rivolta anche a quei filosofi che si sono fermati a metà strada nella loro critica alle posizioni dominanti (si pensi alla critica, nel post scriptum de La distinction, al Derrida che rilegge la kantiana Critica del giudizio rimanendo «succube di tutte le censure proprie di una lettura “pura”»[2]), di cui l’esistenzialismo sartriano rappresentava un esempio paradigmatico, consiste nell’incapacità di quest’ultima di portare a fondo la radicalità del dubbio in stretto collegamento con l’incapacità della medesima di riconoscere il suo carattere storico. A questo si aggiunge il misconoscimento delle basse determinazioni socio-economiche a cui tenta di sfuggire l’autonomizzazione del campo intellettuale (che pertanto vengono denegate), in cui è presa anche la figura del filosofo, sempre più homo academicus, che incorpora e rappresenta la scholé e in quanto tale ignorerebbe la logica della pratica. È dunque la distinzione del savant, incapace di considerare e problematizzare le condizioni oggettive e non universalizzate – liberazione del tempo dall’immediatezza dei bisogni, dai vincoli della necessità economica e sociale –, di cui in particolar modo beneficia il filosofo, a rappresentare un elemento imprescindibile di riflessione critica sulla filosofia, nonché di una sua possibile liberazione. E tutto ciò non assumendo una posizione anti-intellettaulistica, iconoclasta o “populista” come gli verrà rimproverato da più parti, bensì orientando il proprio approccio teorico e pratico verso l’esigenza di defatalizzare il mondo e di promuovere l’esercizio di una realpolitik della ragione che ha come condizione e fine la necessità di universalizzare, davvero e almeno tendenzialmente, le condizioni di accesso all’universale, riconoscendo di volta in volta le relazioni di potere materiale e simbolico che strutturano ogni campo in cui si articola lo spazio sociale. Da qui, e da una serie di circostanze come l’esperienza in Algeria, la scelta, da “miracolato” giunto all’École Normale Superieure parigina dalla periferia geografica e sociale francese, di abbandonare il percorso filosofico e dedicarsi all’etnografia e alla sociologia, e di combattere in quel campo in prima istanza contro gli approcci funzionalisti parametrati sull’individualismo metodologico, ritenendo le scienze sociali l’ambito privilegiato per un sapere oggettivante e auto-riflessivo, così come storicamente situato e approssimato, da cui promuovere una scienza generale dell’economia delle pratiche. Opzione, quest’ultima, mancata dallo stesso materialismo storico, troppo impregnato di economicismo secondo Bourdieu. La scommessa, dunque, nel tentativo di valorizzare le scienze sociali in quanto scienze e relativizzare l’approccio filosofico, consisteva nella costruzione di una teoria della conoscenza sociologica in cui giocava una funzione rilevante l’assimilazione e la rielaborazione dell’epistemologia storica francese, in particolar modo com’è stata declinata da Gaston Bachelard e George Canguilhem in cui si riconosceva il carattere costitutivo della storicità del mondo sociale, così come delle verità scientifiche senza depotenziarne la portata oggettiva e necessariamente approssimata, per richiamare, di nuovo, la lezione bachelardiana.

La posizione di Althusser, nel suo tortuoso percorso di permanente “autocritica”, parte da una lettura della filosofia come Teoria delle pratiche teoriche, dunque caratterizzandosi come una riflessione di secondo grado e marcatamente razionalista sulle pratiche scientifiche e sulle modalità con cui esse costruiscono il proprio oggetto distinguendosi dal piano delle ideologie, in cui la scienza marxiana/marxista – il materialismo storico –, con la rottura epistemologica che aveva promosso, implicava la ricerca e la sistematizzazione di una filosofia marxista per essere adeguatamente pensata, cioè per scindere gli elementi ancora ideologici da quelli scientifici presenti in Marx – si pensi in tal senso alla rilettura del Capitale proposta dal filosofo francese e dai sui allievi. In quella congiuntura – gli anni sessanta – Althusser continua a chiamare “materialismo dialettico” la filosofia marxista, seppure con un approccio già allora diametralmente opposto al Diamat staliniano. In seguito, il percorso di autocritica cosiddetto “anti-teoricista” porterà il filosofo francese ad una sua parziale riformulazione, esplicitando maggiormente la specificità della pratica filosofica, fino ad individuare in modo più articolato i rapporti che s’instaurano, da un lato, con le scienze, dall’altro, con la pratica politica e ideologica (corrispondenti alla lotta di classe), nonché ad offrire una teoria originale dell’ideologia che si discosta dalla semplice lettura marxiana in termini di “falsa coscienza”, se è vero che «gli uomini […] non escono mai dall’astrazione»[3] e l’ideologia ne rappresenta il tratto naturale. Un primo significativo snodo per comprendere i mutamenti intervenuti lo si può cogliere nei Cours de philosophie pour scientifiques del 1967, dove, l'identificazione della filosofia con l'epistemologia, da intendersi latu sensu come «teoria della conoscenza» o, meglio, l'attribuzione alla filosofia di due distinti compiti in quanto critica e autocritica della filosofia – conoscenza «dei processi di produzione delle conoscenze scientifiche» o epistemologia (tesi 41) e conoscenza «dei conflitti di tendenza tra le concezioni del mondo» (tesi 44) , evidenziando che «la filosofia non ha oggetto nel senso in cui una scienza ha un oggetto» (tesi 4) ed essendo una riflessione (non neutrale) sulle scienze e sulle modalità con cui esse “costruiscono” il proprio “campo teorico”, con la funzione principale di «tracciare una linea di demarcazione tra l'ideologico dell'ideologia da una parte e lo scientifico delle scienze dall'altro» (tesi 20), non per questo escluderebbe un'azione a distanza sulle pratiche sociali, e dunque «effetti pratici» sui diversi campi di battaglia.                          Successivamente, dalla fine degli anni Sessanta fino a tutti gli anni Settanta, si accentuerà, almeno sotto alcuni aspetti, il lato più palesemente “militante” della produzione teorica di Althusser, il suo stretto legame con la lotta politica. L'esito sarà un distacco, almeno intenzionalmente, da un approccio epistemologico della riflessione filosofica, o almeno da quella eccessiva autonomia della teoria dalla pratica, e in particolar modo dalla lotta di classe. Aspetto, quest’ultimo, imputato – molte volte con troppa enfasi e scarsa cognizione – come mancanza al filosofo francese da più parti. La posizione di un ex allievo come Jacques Rancière, allora maoista, è forse la più nota. E non a caso la sua critica ad Althusser può essere estesa anche Bourdieu[4]. In tal senso gli Eléments d'autocritique consolideranno un riposizionamento teorico sintetizzato nella definizione della filosofia come «lotta di classe nella teoria» in cui si pone in evidenza la determinazione, seppure in ultima istanza, della filosofia da parte della lotta di classe, e in essa dello scarto rappresentato dalla pratica rispetto alla natura totalizzante del discorso filosofico e teorico. L’ultima “fase” del pensiero althusseriano, che occupa gli anni Ottanta, sembra invece delineare una nuova proposta teorica, e una rimodulazione della filosofia, sintetizzata negli scritti sul materialismo aleatorio, in cui si cercherà di ricostruire, da un lato, quella corrente sotterranea che costituirebbe un corpus unico del materialismo (in polemica non solo con l’idealismo, dato che idealismo e materialismo non sono mai disgiungibili una volta per sempre, ma anche con le correnti materialiste settecentesche e il “vecchio” materialismo dialettico, in questo frangente inteso tout court nella sua formulazione stalinista, di cui Althusser parlerà in termini di «mostruosità filosofica» finalizzata alla conservazione di ogni potere); dall'altro, si tenterà di dotare il marxismo, i suoi elementi ancora vitali, i «tratti del genio rispetto alle “scemenze filosofiche”»[5] – andando oltre la sua crisi – più che di una filosofia, di una posizione filosofica che non si tratterebbe più di cercare solo in Marx, ma di costruire sulla scorta di una linea di pensiero che nei suoi tratti essenziali accomunerebbe, nella storia della filosofia, diversi filosofi e pensatori: da Democrito a Epicuro, da Machiavelli a Spinoza, da Rousseau a Hobbes, da Nietzsche a Marx, da Heidegger a Wittgenstein, da Deleuze a Derrida fino a Darwin.

III

Per quanto concerne i risultati del lavoro di ricerca, l’esame approfondito del percorso teorico dei due autori dovrebbe mettere in rilievo – è questa l’ipotesi di partenza – alcuni tratti comuni seppure partendo da posizioni diverse e con risposte evidentemente distinte se non sempre più alternative. D'altronde, da un lato è nota, in Althusser, la svalutazione, già a partire da Pour Marx, della sociologia come scienza, mentre Bourdieu ha più volte nettamente negato nei confronti dei suoi eterogenei critici, una comunanza progettuale con l’althusserismo, rispetto al quale non ha esitato a sottolineare polemicamente la propria differenza[6]. È peraltro innegabile che durante il sodalizio con Jean-Claude Passeron, e soprattutto per quest’ultimo (come testimonia l’influenza althusseriana e foucaultiana ribadita da Passeron nella ricostruzione del suo percorso teorico successivo alla separazione da Bourdieu[7]), vi sia stata una reciproca attenzione, dettata da un’iniziale comune posizione minoritaria nei rispettivi campi d’azione[8], tra la scuola althusseriana in formazione e i due sociologi. La considerazione positiva di questi ultimi rispetto alla riaffermazione in chiave strutturalista delle filosofie senza soggetto[9] e la buona accoglienza riservata dagli althusseriani ad un testo come Les Héritiers ne rappresentano forse il principale esempio. Attenzione che diventerà sempre più critica se è vero che il saggio di Althusser sugli Apparati Ideologici di Stato (AIS) nasce anche come risposta polemica[10] a La Reproduction. Éléments pour une théorie du système d'enseignement. Si tratterà dunque di tornare sui rispettivi approcci e tentare di rilevare affinità e divergenze, dove tra le prime vi è, alla radice, un’evidente influenza dell’epistemologia storica francese. Da una parte prende forma una filosofia negativa, come lo stesso Bourdieu definisce la sua critica della filosofia in tensione con la valorizzazione delle scienze sociali, dunque del metodo scientifico, che implica, tuttavia, anche una filosofia positiva all’opera, da indagare oltre le intenzioni dichiarate dal sociologo francese (un tentativo lo si trova in un recente testo di un ex allievo di Althusser come Pierre Macherey[11]); dall’altra parte si assiste, in Althusser, ad una costante riformulazione della filosofia che nella sua tendenza materialista evidenzia l’esistenza di domande senza senso (l’Origine, il/la Fine) e in quest’ottica diventa una potenziale alleata della pratica scientifica. In questa prospettiva potrebbe risultare dirimente il rapporto con le scienze all’interno dei due percorsi teorici con una particolare rilevanza ai Cours althusseriani e all’opera collettiva di Bourdieu, Chamboredon e Passeron, Le métier de sociologue (nella cui prima edizione vi era un estratto althusseriano da Lire le Capital) ancora ampiamente ripresa, nella sua ispirazione bachelardiana, in Science de la science et réflexivité, ovvero in occasione di uno degli ultimi corsi del sociologo francese al Collège de France.


 

[1] P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane [1997], Milano, Feltrinelli, 1998, p. 55.

[2] P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto [1979], Bologna, il Mulino, 20012, pp. 491-514.

[3] L. Althusser, Filosofia per non filosofi, Bari, Dedalo, 2015.

[4] Sul rapporto Bourdieu-Rancière si veda C. Nordmann, Bourdieu/Rancière. La politique entre socioligie et philosphie, Paris, Éditions Amsterdam, 2006.

[5] L. Althusser, Sul pensiero marxista [1982], in Id, Sul materialismo aleatorio, a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, Milano-Udine, Mimesis, 2006, p. 35.

[6] P. Bourdieu, Il discorso d’importanza. Qualche riflessione sociologica su «Quelques remarques critiques à propos de “Lire le Capital”» [1975], in Id, La parola e il potere, Napoli, Guida, 1988.

[7] J-C. Passeron, Pierre Bourdieu. Morte di un amico. Scomparsa di un pensatore [2003], a cura di G. Gianturco e R. Viola, Armando Editore, Roma, 2016.

[8] D. Baranger, «De el oficio de sociologo a el razonamiento sociólogico. Denis Baranger entervista Jean-Claude Passeron», Revista mexicana de sociologia, n. 2, abril-junio, 2004, pp. 369-403.

[9] P. Bourdieu, J. C. Passeron, «Sociology and Philosophy in France since 1945: Death and Resurrection of a Philosophy without Subject», in Social Research, XXXIV, 1, Spring 1967, pp. 162-212.

[10] J. Bidet, En guise d’Introduction. Une invitation à relire Althusser, in L. Althusser, Sur la reproduction, Paris, PUF, 1995, pp. 5-14.

[11] P. Macherey, Geometria dello spazio sociale. Pierre Bourdieu e la filosofia, a cura di F. Denunzio, Verona, Ombre Corte, 2014.