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Materiali del seminario "Nuovi studi althusseriani" - Venezia, 26 giugno 2017

Causalità strutturale: Althusser nel dibattito spinozista degli anni Sessanta

Andrea Moresco

 

I saggi raccolti in Per Marx miravano, com'è noto, alla formulazione di una dialettica materialistica della storia mediante i concetti di “surdeterminazione” e di “tutto sociale articolato a dominante”. Essi riconoscevano la materialità e l'efficacia relativamente autonoma di tutte le istanze della formazione sociale e la dimensione complessa, surdeterminata, della contraddizione sociale determinante-in-ultima-istanza. Tuttavia, in quei testi,  Althusser non si era ancora impadronito di Spinoza, che si rivelerà l'alleato più prezioso nella lotta teorica contro la dialettica hegeliana. La nozione di causalità strutturale, ereditata da Spinoza, apparirà soltanto nell'intervento seminariale di Althusser dedicato all'Oggetto del Capitale, poi trascritto in Leggere il Capitale. La causalità strutturale si afferma come il concetto fondamentale della dialettica materialistica, sul quale è costruita la differenza specifica della dialettica di Marx rispetto a Hegel. Non a caso, la causalità strutturale è uno dei punti sui quali Althusser non ha mai ceduto; nell'autocritica del '72, mentre l'intera costellazione concettuale degli anni Sessanta veniva sottoposta a critica serrata, la causalità strutturale non è mai messa in discussione, anzi è perfezionata.

I riferimenti a Spinoza in Leggere il Capitale, sebbene numerosi e così fondamentali per l'obiettivo generale di Althusser, risultano ancora, a mio avviso, ellittici, poco dispiegati, poco sistematici; fanno l'effetto di un lampo, che appare, mostra la propria potenza ma scompare prima che possa essere afferrato. Soltanto nel corso dei primi anni '70, in particolare negli Elementi di Autocritica, Althusser mette a punto il proprio spinozismo in modo preciso e abbastanza sistematico. Riconosce il ruolo fondamentale che il détour attraverso Spinoza aveva giocato nella sua interpretazione di Marx, nel suo marxismo antihegeliano e antiumanistico, nella specificità della dialettica materialistica. Althusser identifica tre questioni su cui la ricezione di Spinoza era stata fondamentale:

1)      il materialismo dell'immaginario di Spinoza era la prima teoria fondata delle ideologie, di cui affermava la realtà materiale e necessaria nell'Appendice al Libro I dell'Etica (la realtà e la necessità della illusioni immaginative del Fine e del Soggetto) e la loro efficacia politica nel Tractatus theologico-politicus;

2)      una concezione immanente della conoscenza vera, che emerge dal cumulo di immagini e idee inadeguate, e non dall'alto di un Giudice della Verità;

3)      il concetto della causalità strutturale, ossia della determinazione immanente di una struttura regionale sui suoi elementi.

 

Proprio nel corso degli anni Sessanta, in Francia assistiamo a una rinascita fortunatissima degli studi spinozisti, che portarono al biennio eccezionale del 1968 – '69, in cui videro la luce le monografie di Gueroult, Deleuze e Matheron. Fino ad allora, l'interesse della cultura francese nei confronti di Spinoza nel corso del Novecento era stato scarsissimo: dopo i commentari fondamentali di fine Ottocento di Delbos (1893) e di Léon Brunschvicg (1894), i quali  proseguirono poi il loro lavoro su Spinoza nei decenni successivi, non si assiste più ad alcuna esposizione veramente significativa dell'opera di Spinoza per tutta la prima metà del XX secolo, ad eccezione degli Études spinozistes di André Darbon del 1946. Nei primi anni Sessanta Sylvain Zac diede alla luce due importanti opere dedicate a Spinoza, L'ideé de vie dans la philosophie de Spinoza (PUF, 1963) e Spinoza et l'interpretation de l'écriture (PUF, 1965), che tuttavia non suscitarono alcun interesse al di fuori dei pochi specialisti di quegli anni.

Negli ambienti francesi insoddisfatti dallo strutturalismo – o meglio, che trovavano nello strutturalismo alcuni intuizioni convincenti, ma un vizio inaccettabile di formalismo e di staticità  – Spinoza rappresentava la migliore via d'uscita possibile (il rapporto tra lo spinozismo e lo strutturalismo sarebbe un argomento complesso, non lo affrontiamo qui, tuttavia che Spinoza abbia fornito una via d'uscita da alcune secche dello strutturalismo è un'interpretazione abbastanza affermata). Althusser rientra senz'altro all'interno di questa grande rinascita di Spinoza; partecipa al movimento intellettuale di Zac, Gueroult, Deleuze, Matheron di quel decennio, si serve di Spinoza sin dalla metà degli anni Sessanta per ripensare le strutture fondamentali del materialismo storico; sappiamo che nel '66 convocò Matheron, Rousset e altri per organizzare alla Rue d'Ulm un seminario su Spinoza dopo quello sul Capitale, che non potè realizzare per problemi di salute; infine attraversa il biennio eccezionale del '68-'69 e, in seguito a questo, negli anni Settanta, giunge a una formulazione matura e sistematica del proprio spinozismo. Quel che ci interessa è cogliere il rapporto che Althusser intrattenne con i grandi protagonisti di quella Spinoza Renaissance, soprattutto su una questione così cruciale per l'althusserismo come quella della causalità immanente. La causalità espressiva di Deleuze, la causalità circolare di Matheron e la causalità strutturale di Althusser rappresentano tre interpretazioni differenti – la prima e la terza persino incompatibili – della causalità spinoziana.

L'espressionismo di Deleuze si fonda sulla correlazione di esplicazione e di implicazione: la sostanza si esplica negli infiniti attributi da cui è costituita, i quali, a loro volta, esplicando la potenza della sostanza nei modi finiti e dandone manifestazione nel molteplice, vi rimangono implicati, immanenti. Ciò che si esprime non esiste al di fuori della sua espressione, ma, esplicandovisi, vi rimane implicato, impresso. L'immanenza è dunque posta come l'implicazione di ciò che si esplica nell'esplicazione stessa. Ma ciò non sarebbe sufficiente se l'attributo si dicesse in un senso differente, equivoco, della sostanza di cui è espressione e dei modi in cui si esprime. L'univocità degli attributi è dunque la condizione affinché quell'implicazione sia realmente immanente. Gli attributi costituiscono l'essenza della sostanza e, nelle stesso senso, producono i modi. Gli stessi attributi in cui la sostanza si esprime sono, univocamente, la causa dei modi finiti.         Gli attributi sono le forme comuni alle parti e al tutto, ovvero i “generi” in cui ogni potenza – quella di Dio come quella degli individui – si esprime. La lettura deleuziana colloca l'asse portante dell'immanentismo proprio nell'univocità degli attributi e nella loro “comunanza” tra l'infinito e il finito. La causa immanente è la condivisione di quelle forme univoche che attribuiscono l'essere alle essenze singolari. La sostanza produce i propri modi, si esprime in essi, condividendo con essi il proprio attributo, la propria capacità di pensare e di estendersi. Causalità è la comunanza e condivisione di forme tra l'espresso e l'espressione. La causa non esce da sé, ma rimane in se stessa e condivide le proprie forme; neppure l'effetto esce dalla causa, ma rimane modalmente in essa come ciò che è in altro (quod in alio est). Deleuze traduce l'immanenza della causa nella riduzione della causa a causa formale, ossia una condivisione molto formale, statica, topologica e poco effettuale.

L'espressionismo deleuziano implica una distinzione tra ciò che si esprime (la sostanza), ciò che è espresso (la potenza) e l'espressione (gli attributi infiniti e, poi, i modi finiti); in secondo luogo, c'è infatti una distinzione tra il primo livello espressivo degli attributi, che indica una ricostruzione genealogica dell'essenza della sostanza a partire dagli attributi, e un secondo livello espressivo dei modi, che indica invece una vera e propria produzione di cose. A mio avviso, l'idea di espressione reintroduce, sul piano dell'immanenza, quelle distinzioni gerarchiche e metafisiche  che Deleuze si propone di abbattere. Espressione è, in fondo, la traduzione della potenza dall'infinito al finito; come scrive Deleuze, di fronte all'espressione, assistiamo alla discesa della triade della sostanza negli attributi». L'espressionismo reintroduce una verticalità nel piano dell'essere, istanze trascendenti sul piano dell'immanenza, distinzioni di gerarchia e di priorità che sono reali pur non dividendo l'essere su più piani. L'ambizione di un immanentismo radicale si infrange contro lo scoglio di questa “discesa” e di queste distinzioni.
Quando Althusser rigetta il concetto leibniziano di espressione, sebbene il testo di Deleuze non fosse ancora uscito, mi pare colga esattamente questo problema intrinseco al concetto di espressione, quello di reintrodurre un'istanza di trascendenza, di dominazione, di priorità, sul piano dell'immanenza, della società. L'interesse di Althusser non si rivolge a Leibniz ma a Hegel, poiché l'espressione è il principio egemonico del pensiero hegeliano della storia. Essa presuppone che la totalità sia riducibile a un principio causale interno, cioè a un'essenza interna, a una causa formale del tutto. Tutte le determinazioni fenomeniche esteriori della totalità si riducono, in questo schema, ad espressione del principio interno; l'espressione è, per sua stessa natura, seconda e riducibile rispetto a ciò che si esprime. L'espressione riflette l'efficacia del tutto sulle sue parti, ma annulla l'essere della parti.

L'interpretazione di Matheron va, invece, nella direzione di una causalità circolare, in cui l'azione della causa sull'effetto implica l'azione dell'effetto sulla causa e, così, l'azione della causa risulta effettivamente un'azione su se stessa. Il Trattato Politico pone, secondo Matheron, all'origine dello Stato politico una causalità circolare, in cui cooperazione, disciplina collettiva e sovranità si corroborano l'un l'altro in un costante scambio di posizione tra la causa e l'effetto. Lo sviluppo della  cooperazione sociale e del sistema di scambi istituisce un'istanza di disciplina collettiva, ossia alcune norme comunemente ritenute valide (vox populi) che regolano i conflitti e offrono garanzie reciproche ai cooperanti. Le norme comuni che emergono dalla cooperazione spontanea tra gli individui costituiscono una prima esistenza della potentia multitudinis, un diritto comune sovrano con cui lo Stato è istituito. La nascita dello Stato e il posizionamento delle leggi civili reagisce sulle proprie condizioni d'esistenza e rinforza, a sua volta, la disciplina collettiva e i rapporti di cooperazione. Una volta istituite, le istituzioni del potere sovrano obbligano gli uomini, sebbene in larga parte non razionali, a cooperare pacificamente, a comunicarsi le proprie conoscenze reciproche e a vivere, almeno esteriormente, secondo i dettami fondamentali della ragione.
Non sono i saggi, gli uomini razionali a costruire la città. Sono le passioni e non la ragione, secondo lo Spinoza di Matheron, profondamente influenzato dalla riscoperta del Trattato Politico, a istituire lo Stato. Se gli uomini vivessero isolatamente, gli uomini sarebbero pressoché impotenti. La speranza di poter contare sulle forze altrui per procurarsi i beni di prima necessità, la paura del nemico esterno, il desiderio di sopravvivere e ripararsi dai pericoli, instaurano naturaliter un primo embrionale livello di cooperazione sociale, che viene poi affermata e “surdeterminata” dai suoi stessi effetti istituzionali. La genesi dello Stato non è più presieduta da una causalità meccanica mezzo-fine (contratto-accordo), che presuppone la guida di una ragione strumentale, bensì da una sequenza circolare causa-effetto-causa. L'intreccio di desideri individuali nella cooperazione sociale diviene desiderio di disciplina collettiva e di istituzioni sovrane che, a loro volta, esplicano i desideri individuali. Le cause divengono effetti, e gli effetti divengono cause, circolarmente, confermando l'ipotesi metafisica secondo cui la causa è immanente nell'effetto e determina la produttività causale dell'effetto stesso.
Non solo alle origini dello Stato, ma durante tutto l'arco del suo sviluppo regna una causalità circolare. La struttura complessiva dello Stato, che emerge dai capitoli 6, 7 e 8 del Trattato Politico, comprende due istituzioni «di base» su cui si regge la tenuta delle istituzioni governamentali, propriamente politiche: il regime di proprietà e la religione. Esse sono definite «di base» poiché contengono le due condizioni fondamentali della stabilità del governo di una città: una legislazione sulla proprietà che non renda nessuno così povero da non aver nulla da perdere e l'unità di un sistema di valori di riferimento rappresentato in Dio. Proprietà e religione stanno ai due estremi del “ciclo” con cui Spinoza concepisce l'esercizio dinamico e circolare della sovranità. I bisogni e i desideri di ogni cittadino, che vengono trasmessi al sovrano attraverso gli amministratori locali, dipendono direttamente dalla proprietà di cui questi dispongono. Il potere sovrano, indipendentemente dalla sua forma, raccoglie le istanze provenienti da tutti i territori sotto il suo imperium e, affiancato dagli organi consultivi, ne trae un “denominatore comune” sotto la forma di leggi e di decreti. In ultima battuta, la conformità tra l'attività legislativa e l'orientamento valoriale e religioso dominante rappresenta un presupposto decisivo dell'obbedienza dei cittadini alle leggi  e della pace interna. Non vi è garanzia migliore, per l'organo deputato all'esercizio del potere sovrano, che inscrivere le proprie deliberazioni all'interno del sistema di valori trasmessi da Dio. L'oggetto della rivelazione religiosa è, come si dimostra nel Teologico-politico, l'obbedienza e la fede assume allora un valore pratico estremamente efficace, capace di instaurare un vincolo d'obbedienza quasi assoluta tra gli individui e i valori religiosi.
Intervenire sulla proprietà rappresenta dunque la priorità di una politica spinozista: nazionalizzare le terre e abolire la proprietà fondiaria o, nel caso dell'aristocrazia, vietare che le terre possano essere affittate, ma soltanto vendute, impedendo così ai grandi proprietari terrieri di accumulare latifondi e affittarli ai braccianti, frantumerebbe gran parte delle tensioni sociali e delle invidie antagonistiche che attanagliano la città. Il potere politico, in sintesi, deve costruire mediante attività legislativa un regime di proprietà giusto ed egualitario, al tempo stesso adeguato alle situazioni e alle condizioni contingenti in cui la società si trova. Al tempo stesso, quelle leggi, per essere veramente stabili, devono riflettersi nel contenuto dell'ideologia religiosa dominante, che può fortificare vigorosamente l'obbedienza alle leggi civili. L'esempio più emblematico è quello dell'istituto del giubileo, un evento ripetuto ogni cinquant'anni secondo le abitudini religiose del popolo ebraico. Le terre erano suddivise in modo assolutamente uguale tra i cittadini ebraici, incluso il principe. Se qualcuno però, costretto dalla povertà, vendeva le proprie terre, in occasione del giubileo tutte le compravendite di terre dei cinquant'anni precedenti erano cancellate e la proprietà immobiliare tornava ad essere ben distribuita tra i cittadini. Mediante l'ideologia religiosa, gli ebrei costruirono uno Stato in cui nessuno è asservito ad un proprio eguale, cosa che la natura umana mal sopporta, e alcun diritto umano è trasferito ad altri uomini ma a Dio soltanto. Nessuno potrà perdere la propria terra e diventare povero, cosicchè l'utilità della societas sia un movente costante alla cooperazione. Regime di proprietà e ideologia religiosa sono, in quanto tali, nel loro intreccio circolare, le istituzioni di base dello Stato, le condizioni fondamentali della sua stabilità. La causalità circolare non è ancora strutturale, non è pensata nei termini del primato della struttura dei rapporti di produzione sui suoi effetti immanenti e non sarebbe opportuno althusserianizzare eccessivamente la lettura spinoziana di Matheron; tuttavia, pare evidente che delle importanti sintonie e convergenze possano essere trovate.

Althusser vuole ripensare l'intera teoria marxiana dello sfruttamento, della storia e della lotta di classe, a partire dal concetto di efficacia della struttura sui suoi elementi, ossia della riflessione causale immanente della struttura sugli elementi. Marx aveva prodotto quel concetto nel suo pensiero, ma non nel suo discorso esplicito. Althusser pensa l'efficacia di una struttura sugli elementi come una combinazione di elementi che assegna, a ciascuno di essi, un luogo e una funzione determinata all'interno della combinazione stessa. I rapporti di produzione sono concepiti come una struttura specifica che combina gli elementi della produzione (gli agenti immediati della produzione, la loro forza-lavoro, i mezzi di produzione e i loro proprietari non produttori), distribuendo ciascuno di questi nei posti e nelle funzioni previste dalla struttura. Ciascuna struttura è una struttura “a dominante”, in cui la dominanza di un elemento sugli altri è la forma stessa dell'unità e della complessità di quella struttura. La proprietà privata dei mezzi di produzione è la “dominante” della struttura della produzione capitalistica, nel senso che costituisce il modo di combinazione dei molteplici elementi e  determina i luoghi e le funzioni fondamentali che ciascun elemento dovrà “occupare”: venditori di forza-lavoro non proprietari dei mezzi di produzione e compratori di forza-lavoro proprietari di quei mezzi. Lo sviluppo tecnologico della forze produttive, la cooperazione tra i lavoratori e la divisione sociale del lavoro sono sussunti nella proprietà privata. L'efficacia della struttura “a dominante” sugli elementi della struttura è, secondo Balibar, il concetto adeguato della sussunzione reale, ossia della forza causale di trasformazione che i rapporti di proprietà agiscono su tutti gli elementi della produzione.

La struttura è, dunque, la relazione tra i molteplici elementi che li distribuisce nei “luoghi” topici della struttura e assegna, a una di questi, la dominanza dell'intera struttura. Il plusvalore è il concetto di questa struttura, ossia della distribuzione dei “portatori” in classi sociali antagonistiche da parte di rapporti di proprietà. Si tratta, dunque, di una struttura contraddittoria, che ospita una contraddizione tra i luoghi della sua distribuzione e che autorizza la distinzione tra la contraddizione strutturale capitale/lavoro salariato e le contraddizioni secondarie di tutti gli effetti di quella struttura. In quanto struttura, il plusvalore non è presente in quanto tale, ma soltanto nella relazione tra i suoi elementi ma soltanto nella sua assenza determinata. L'efficacia della struttura sugli elementi è, infatti, l'efficacia della causa assente. La struttura non è mai presente allo stato puro sulla scena della storia, in quanto tale, separatamente dai suoi effetti. La causa strutturale è sempre presente nei suoi elementi, e tra i suoi elementi, sempre in forma “surdeterminata”, “ospitata”, e mai in quanto tale. La struttura del plusvalore non può essere afferrata in quanto tale “nella realtà”, nelle “cose stesse”, confondendo il materialismo con le illusioni dell'empirismo. Il plusvalore esiste soltanto nei suoi effetti, nei suoi modi di esistenza storici (l'interesse, il profitto, la rendita. La causalità strutturale è l'efficacia e il primato della struttura sui suoi elementi, e, insieme, è l'efficacia di un'assenza, poiché la struttura è, nello stesso tempo, assente in se stessa ma presente, immanente, nei suoi effetti.

Non si tratta, tuttavia, di ricondurre l'assenza determinata della causa strutturale a quell'essenza interna, invisibile, inafferrabile, che si trasfigura nelle sue forme d'apparizione feticistica, come una certa lettura hegeliana del feticismo ha suggerito. Qui si gioca, a mio avviso, quella differenza specifica della dialettica materialistica che Althusser ricerca a lungo. La determinazione della struttura (i rapporti di produzione e dell'estrazione di plusvalore) sui suoi elementi (la distribuzione in classi degli individui “portatori” delle funzioni strutturali) e sugli effetti che produce (interesse, rendita, profitto) rompe con i concetti di causalità noti alla tradizione filosofica. La causalità strutturale rende conto dell'efficacia del tutto sulle parti e, insieme, delle parti nel tutto, un tutto senza chiusura e senza centro, contrapposto alla totalità espressiva hegeliana. La causalità del Tutto sulle parti consiste, in ultima istanza, nella struttura dei rapporti attivi tra le parti stesse e non può essere pensata prescindendo dalle parti, o riducendo le parti al tutto. La causa assente è il rapporto tra i suoi elementi,

 

La filosofia classica moderna presentava due concetti di causalità non eminente, non trascendente: il sistema meccanicistico cartesiano, che concepisce la causa come linearità transitiva, in cui la causa produce un effetto successivo ed esteriore, il quale a sua volta è la causa di effetti successivi; essa non era capace di pensare l'efficacia di un tutto sulle sue parti. In secondo luogo, il già concetto leibniziano di espressione, che, come detto, sarà poi ripreso da Hegel, pensando l'efficacia del tutto sulle parti come un rapporti di riducibilità delle parti a espressione del tutto.
Occorre un “détour” attraverso Spinoza per afferrare la causalità strutturale e liberarla dagli equivoci dell'espressionismo. Tuttavia il compito si presenta come molto arduo e delinea un cantiere di elaborazione teorica genialmente aperto da Althusser e proseguito da alcuni suoi allievi, che richiede  - e merita – tutt'oggi chiarimenti e sforzi da parte dei suoi interpreti. Marx infatti, che aveva una scarsa conoscenza di Spinoza, aveva a malapena intravisto quella nuova nozione di causalità che il suo stesso materialismo storico aveva prodotto e aveva saputo esprimerla soltanto a livello metaforico. Marx introduce la metafora dell'illuminazione generale, in cui la struttura è la luce generale nella quale sono immersi tutti i colori dei quali modifica le tonalità particolari, o quella de “l'etere che termina il peso specifico di tutte le forme d'esistenza che gli appartengono”, pare consapevole della mancanza di un concetto mediante cui pensare la determinazione della struttura sul tutto. La Darstellung, il concetto epistemologico chiave di tutta la teoria del feticismo del valore, è il meno metaforico con cui Marx designa la presenza assente della struttura nei suoi effetti. Con Darstellung Marx concepisce la manifestazione del valore di una merce nel valore d'uso di un'altra merce, il rappresentarsi di una forma sociale nella forma fenomenica naturale (v. Rancière).
La causa strutturale non è un'essenza spirituale e interiore che si manifesta in una molteplicità di epifenomeni esteriori e materiali. L'assenza della causa strutturale non è, dunque, la sua interiorità, l'interiorità di una struttura rispetto ai fenomeni esteriori, bensì è, esattamente, la forma della sua immanenza, del suo essere interno ai risultati. La causa è immanente ai suoi effetti, alla realtà che produce “nel senso spinozista del termini”, ossia che tutta l'esistenza della struttura consiste nei suoi effetti: Spinoza insegnava esattamente che l'assenza è l'immanenza, cioè la presenza negli effetti. Questo implica, allora, che gli effetti non siano esterni alla struttura né siano un oggetto o un elemento, uno spazio preesistente sui quali la struttura imprimerebbe il suo marchio: al contrario, questo implica che la struttura sia immanente ai suoi effetti nel senso spinozista del termine, che tutta l’esistenza della struttura consiste nei suoi effetti.
La distinzione tra la causa assente e l'effetto non è una distinzione reale, situata nell'oggetto della realtà; è una distinzione formale, esterna al reale, a cui si può giungere attraverso le astrazioni del processo conoscitivi, ma a cui non corrisponde una distinzione nella realtà. D'altronde, le formazioni politiche borghesi, favorevoli alle guerre, all'imperialismo, alla repressione della classe operaia, a contratti nazionali del lavoro in cui i salari sono compressi al massimo, sono forse separabili dalla determinazione in ultima istanza dei rapporti di classe della produzione? A proposito dell'analisi della rendita fondiaria condotta nel Libro III, Marx distingue una “forma pura” della rendita dalle sue determinazioni fenomeniche, specificando che quella distinzione scientifica non è tuttavia una separabilità reale, poiché la forma-rendita non è separabile da quegli effetti supplementari che essa produce nella pratica e in cui esiste. Gli effetti sono, spinozianamente, i modi di esistenza di una causa, da cui la causa non può dunque prescindere; la causa senza i suoi effetti è un'astrazione, e, in quanto astrazione, è un oggetto della conoscenza e non della realtà.  “La sostanza senza i suoi modi è un'astrazione”, può essere concepita sul piano del pensiero e delle definizioni mediante, ma non esiste sul piano dell'essere. L'effetto è la forma di esistenza storica della causa, in questo senso viviamo storicamente nell'effetto ma mai nella causa. L'effetto è la lotta di classe, la causa è la struttura contraddittoria dei rapporti di produzione, solo la scienza può afferrare il concetto della causa assente, ma nella pratica non «mettiamo mai le mani» sulla contraddizione principale.
Il modello transitivo di origine galileiana-cartesiana e il modello espressivo di origine leibniziana, ripreso da Hegel, avevano un fondo comune nella distinzione essenza-fenomeno. Sul rifiuto di quest'opposizione, si gioca la grande “rivoluzione teorica” anticipata da Spinoza e affermata da Marx, sebbene Marx stesso si serva ancora di una terminologia adeguata e concepisca l'efficacia di una struttura nei termini di essenza e fenomeno. Essenza e fenomeno istituiscono, infatti, nell'essere stesso una distinzione falsa: non vi è più, secondo Marx, alcun movimento reale “vero” da scoprire e portare a coscienza al di sotto dei movimenti apparenti, bensì i movimenti apparenti sono reali: la realtà è feticistica, apparente, il tutto è falso come disse Adorno, poiché l'apparenza è reale. L'apparenza è un effetto strutturale e oggettivo della realtà, è un effetto immanente della struttura dei rapporti di produzione che assegna i propri luoghi tipici a dei “portatori” di funzioni e, nella distribuzione, produce l'illusoria libertà di quei portatori in quei luoghi, ossia l'illusione del soggetto. Non c'è più alcun interno e alcun esterno, alcuna essenza interna e invisibile, da liberare dalla scorza di apparenze esterne da cui ricoperta. La causa è nell'effetto, siamo sempre nell'internità.

Tornando al confronto con le letture contemporanee che Deleuze e Matheron diedero della causalitù immanente di Spinoza. La causa espressiva deleuziana, nel solco della tradizione espressionista, situa la distinzione classica tra essenza e fenomeno, nell’essere stesso, nella realtà stessa. Deleuze si sforza, fino ai limiti della contraddictio in terminis, di pensare una distinzione reale non numerica, ossia una distinzione che fosse nella realtà ma non individuassse due res (due sostanze) differenti, proprio per pensare l'unità della sostanza e la molteplicità dei suoi fenomeni. Essa traspone come differenze di livello dell'essere una distinzione che non appartiene all' oggetto reale, poiché si tratta della distinzione puramente cognitiva. La distinzione tra la struttura e i suoi effetti, il posizionamento di una determinazione in ultima istanza di una struttura su altre strutture, appartengono soltanto alla conoscenza; nella realtà, non vi è la possibilità di distinguere la determinazione in ultima istanza dalle surdeterminazioni.
La causalità circolare di Matheron mostra, invece, una certa consonanza con i saggi su Contraddizione e surdeterminazione e Sulla dialettica materialista, in cui non vi era ancora traccia della nozione di causa strutturale assente; in quei testi, la dialettica tra la determinazione in ultima istanza della pratica economica e l'autonomia relativa delle pratiche sociali può essere rappresentata circolarmente. Il concetto teorico di quella dialettica è surdeterminazione, ossia il riflettersi reciproco della contraddizione principale nelle sue condizioni d'esistenza e, viceversa, delle condizioni esistenti del tutto sociale nella contraddizione principale. Il passaggio dalla causalità circolare alla causalità strutturale mette a fuoco ciò che la nozione di causalità strutturale e il riferimento a Spinoza aggiungono, apportano, di decisivo alla dialettica materialistica: il ripensamento dell'immanenza come assenza. Non basta dire che la struttura dello sfruttamento, dell'estrazione di plusvalore e di divisione in classe della società, è presente a ogni livello della società in forma “surdeterminata”; occorre aggiungere che quell'immanenza dei rapporti di produzione a ogni sfera della società è la loro stessa assenza, il loro carattere spettrale, fantasmagorico, inafferrabile.